mer, 10 dicembre 2025

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Paolo D'Arpini
Il saggio Ramana Maharshi a chi gli chiedeva quale fosse il modo più semplice per “raggiungere” la consapevolezza di Sé (nel senso dell’autorealizzazione) consigliava l’autoindagine, attraverso l’interrogarsi “chi sono io”. E se qualcuno insisteva per avere delle norme esteriori di comportamento allora consigliava di assumere solo cibo “satvico” e in quantità moderata. Il cibo “satvico” è in effetti la cosiddetta dieta vegetariana, quella più vicina all’alimentazione naturale dell’uomo. L’uomo è nato frugivoro, la sua conformazione anatomica è simile a quella degli altri frugivori: suini, scimmie antropomorfe, etc. Questi animali, come dovrebbe essere per l’uomo, si nutrono essenzialmente di semi, proteine vegetali, verdure, frutta, tuberi, latte materno, integrando il tutto – di tanto in tanto – con qualche altro prodotto di origine animale, come ad esempio il latte di altri mammiferi, piccole quantità di miele, uova e simili. Eccezionalmente e per scopi integrativi essi fanno anche uso di moderate quantità di pesce o carne. Ovviamente, nella dieta “satvica”, consigliata ai ricercatori spirituali, la carne non è compresa, poiché il cadavere, essendo un composto organico in putrefazione, è considerato un alimento “tamasico” (oscurante) per la mente. Tra l’altro gli animali sono considerati a tutti gli effetti muniti di “anima” e quindi visti come esseri spirituali simili all’uomo. Cibarsene è considerata perciò una forma di “cannibalismo”. La filosofia dei Veda – scrive Steven Rosen nel suo illuminante libro Il vegetarianesimo e le religioni del mondo – riconosce appieno agli animali la capacità di raggiungere stati di spiritualità elevata. Si tratta di una tradizione religiosa che non promuove soltanto il vegetarismo, ma anche l’uguaglianza spirituale di tutti gli esseri viventi. Il vegetarismo in effetti non è altro che la conferma di questa consapevolezza: tutti gli esseri viventi sono spiritualmente uguali. Tra l’altro, nell’induismo vengono indicate anche altre ragioni per cui è necessario astenersi dall’ingerire cadaveri perché nell’atto di cibarsi dell’altrui carne si crea un legame karmico con la violenza e la morte. Malgrado vi siano indicazioni di sacrifici cruenti da compiere una o due volte all’anno persino il Corano esalta la compassione e la misericordia di Allah — chiamato al-Raham, ovvero “l’infinitamente misericordioso” — nei confronti di tutti gli esseri da lui creati, senza eccezioni. Lo stesso profeta Maometto, che presumibilmente era vegetariano e amava gli animali, disse: «Chi è buono verso le creature di Dio è buono verso se stesso». Per quanto riguarda l’Ebraismo, nella Genesi l’alimentazione prescritta all’uomo è chiaramente vegetariana: «Ecco vi do ogni vegetale che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto che produce seme: saranno il vostro cibo» (1, 29). E ancora nella Genesi si legge: «Non dovreste mangiare la carne, con la sua vita, che è il sangue». E infatti, secondo le leggende bibliche, il popolo d’Israele si mantenne vegetariano per dieci generazioni, da Adamo a Noè. Solo dopo che il diluvio universale ebbe distrutto tutta la vegetazione, si narra che Dio diede al “suo” popolo il permesso temporaneo di mangiare carne. Poi, per ristabilire l’alimentazione vegetariana, quando gli israeliti lasciarono l’Egitto, Dio fece cadere la manna, un alimento vegetale adatto a nutrirli durante il loro duro viaggio. Ma, poiché gli israeliti continuavano a chiedere con insistenza la carne, Dio gliela concesse, insieme però a una peste fatale che colpì tutti coloro che ne mangiarono. Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, e quindi il Cristianesimo, l’insegnamento di Gesù (nato di origine essena, una setta che praticava il vegetarismo) è stato a tal punto censurato nelle numerose traduzioni e revisioni dei Vangeli che sono quasi sparite le tracce della sua compassione e del suo completo amore per tutte le creature viventi, che si esprimevano anche nel non mangiare carne di alcun tipo, in armonia con la tradizione degli Esseni. In un “Vangelo secondo Giovanni” tramandato dagli Esseni e dalle Chiese cristiane d’Oriente ma rifiutato dalla Chiesa cattolica, si insegna l’assoluta nonviolenza nei confronti degli animali ed è vietato esplicitamente di mangiare carne: «Mangiate tutto ciò che si trova sulla tavola di Dio: i frutti degli alberi, i grani e le erbe dei campi, il latte degli animali ed il miele delle api. Ogni altro alimento è opera di Satana e conduce ai peccati, alle malattie e alla morte». I primi cristiani erano vegetariani. E lo furono anche i veri Padri della Chiesa, come san Giovanni Crisostomo, San Girolamo, Tertulliano, San Benedetto, Clemente, Eusebio, Plinio e molti altri. Ma quando il Cristianesimo volle diventare la religione di Stato dell’Impero Romano, durante il concilio di Nicea vennero radicalmente alterati i documenti originali. I “correttori” nominati dalle autorità ecclesiastiche eliminarono dai vangeli qualsiasi riferimento al non mangiare carne: tradussero con il termine «carne», per ben diciannove volte, il termine greco originale «cibo” e scelsero la versione «dei pani e dei pesci” a quella, contemporanea a Cristo, del miracolo della «moltiplicazione dei pani e della frutta”. Ciononostante anche in seguito alcuni santi cristiani sono stati vegetariani. Basti pensare al più famoso di tutti, san Francesco, il quale, nel suo amore per tutte le creature viventi, si nutriva esclusivamente di pane, formaggio, verdure e acqua di fonte. La compassione che sta alla base di ogni “fede” va ricercata interiormente, e mangiare carne, diceva Lev Tolstoi, «è immorale perché presuppone un’azione contraria al sentimento morale, quella di uccidere. Uccidendo, l’uomo cancella in se stesso le più alte capacità spirituali, l’amore e la compassione per le altre creature». Quindi, a che serve giustificare o preferire una religione all’altra? Sono le persone che fanno la differenza! Sono tutti quegli uomini e quelle donne “compassionevoli” che non si limitano a riti esteriori ma che nutrono compassione per se stessi e per tutte le altre creature. Insomma, ricapitolando, l’Induismo, l’Ebraismo, l’Islamismo e il Cristianesimo contengono di fondo lo stesso messaggio di compassione e nonviolenza, ricordo anche le parole del Buddha nel Dhammapada: «In futuro, alcuni sciocchi sosterranno che io ho dato il permesso di mangiare carne,e che io stesso ne ho mangiata, ma io non ho permesso a nessuno di mangiare carne, non lo permetterò ora, non lo permetterò in alcuna forma, in alcun modo e in alcun luogo». Paolo D’Arpini - Comitato per la spiritualità laica
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Il Natale 2025 si prepara a segnare una svolta nel modo in cui le famiglie affrontano la festa più iconica dell’anno. Non è solo questione di decorazioni o regali: il cuore del cambiamento riguarda la crescente consapevolezza climatica e la volontà di rendere i gesti natalizi più coerenti con i valori etici emergenti. Secondo nuove raccolte dati e iniziative promosse da organismi internazionali, cresce l’adozione di pratiche che riducono sprechi, eccessi e consumi superflui. Le campagne pubbliche dedicate alle festività — in Europa come in altri continenti — segnalano un progressivo spostamento dall’acquisto compulsivo verso rituali che privilegiano la qualità del gesto rispetto alla quantità degli oggetti scambiati. Ciò si nota sia nelle scuole sia nelle comunità religiose e civiche, dove vengono incoraggiati pranzi collettivi a basso impatto, scambi di oggetti ricondizionati, attività di volontariato e scelte alimentari più sobrie ma simbolicamente ricche. Le iniziative a sostegno di un “Natale sostenibile” stanno mostrando che le nuove pratiche hanno un effetto misurabile anche sulla dimensione psicologica: chi partecipa a rituali comunitari orientati alla sostenibilità riporta un maggiore senso di scopo, un rafforzamento del legame sociale e una percezione di coerenza tra valori personali e comportamenti. La riduzione degli imballaggi, gli acquisti a chilometro zero e la scelta di regali esperienziali stanno diventando atti sempre più diffusi, complice un’evoluzione culturale che vede il consumismo lasciare spazio alla responsabilità condivisa. A livello familiare, molte tradizioni stanno assumendo nuove forme. In diverse città europee si diffonde l’abitudine di dedicare parte della giornata festiva a un’attività ecologica: passeggiate collettive nei parchi, cura di spazi verdi, donazioni a progetti ambientali locali. Il tempo insieme diventa quindi un gesto consapevole, più orientato all’esperienza che all’oggetto. Non si tratta di rinunce, ma di una riconversione del significato del dono: dai pacchi da scartare ai riti da vivere. Tuttavia la trasformazione non è priva di ostacoli. Le aspettative commerciali restano forti e molte famiglie continuano a sentirsi condizionate dal peso del “regalo perfetto”. Per questo le iniziative più efficaci non chiedono di “comprare meno”, ma offrono alternative concrete: voucher per esperienze culturali e sportive, regali riparabili o riciclati, kit di manutenzione, donazioni tracciabili con aggiornamenti sul loro impatto, o addirittura “regali a rotazione” condivisi da comunità ristrette come gruppi di vicinato. Le istituzioni religiose, culturali e scolastiche svolgono un ruolo crescente nell’amplificare queste pratiche. Molti enti stanno proponendo linee guida pratiche — non teoriche — per trasformare cene, scambi e tradizioni in atti più sostenibili. Anche il settore imprenditoriale sta rispondendo, con iniziative che riducono gli sprechi legati alle festività aziendali e che invitano dipendenti e famiglie a gesti di responsabilità sociale. Questa evoluzione suggerisce che il Natale non sta perdendo il proprio valore simbolico, ma si sta riposizionando: la generosità rimane il fulcro, ma assume forme più consapevoli e, paradossalmente, più profonde. Il dono non è più un sostituto della presenza, ma un veicolo che la rafforza. La festa torna così a essere un momento di radicamento emotivo e comunitario.
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Alan Thewless
Il Diario delle Notti Sante 2025-26 di Alan Thewless Proposta per un percorso di contemplazione e annotazioni attraverso le Notti Sante del Natale che conducono all'anno 2026 con riferimento alle immagini delle stelle di mezzanotte Versione tradotta in italiano https://www.liberaconoscenza.it/articoli/liberaconoscenza-diario-notti-sante-2025-26-alan-thewless.html

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Il mio nome completo in sanscrito è Swami Bodhi Vipal che significa “Momento di consapevolezza”. Mi è stato donato da OSHO, Maestro di…
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Nirava Dainotto, esploratrice e guida nel mondo dell’energia e della salute naturale. All’anagrafe Tiziana Dainotto. L’altro nome sacro è…
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Sonia Versace – Guida Spirituale, Scrittrice e Portavoce del Divino Sonia Versace è una guida angelica, insegnante di meditazione, Reiki…
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La natura urbana come strumento di benessere: i…

Spiritual News
Negli ultimi mesi una serie di studi internazionali ha messo in discussione un’idea radicata: per ottenere benefici psicologici dalla natura non serve abbandonare la città né organizzare lunghe escursioni. Una ricerca congiunta del Natural Capital Project della Stanford University ha infatti dimostrato che anche brevi immersioni quotidiane negli spazi verdi urbani — della durata di appena 15 minuti — sono sufficienti a ridurre i livelli di ansia, aumentare la sensazione di benessere e favorire comportamenti sociali più equilibrati. I ricercatori hanno analizzato l’impatto del verde “di prossimità”, ovvero parchi, viali alberati, giardini pubblici, perfino aiuole curate, rilevando che la mente umana reagisce già a piccoli stimoli naturali distribuiti lungo la giornata. Non si tratta di un effetto romantico o simbolico: gli esiti raccolti mostrano cali misurabili nel cortisolo, migliore regolazione dell’umore e un incremento spontaneo di attività salutari come la camminata lenta e l’osservazione consapevole dell’ambiente. Anche uno studio pubblicato su Nature ha confermato che la qualità degli spazi verdi cittadini influenza in modo diretto le capacità di recupero dallo stress e la propensione a forme leggere di meditazione quotidiana, come l’attenzione al respiro o alla postura durante la camminata. La novità più rilevante riguarda la scala del fenomeno: la natura urbana non è più considerata solo un elemento estetico o un servizio pubblico marginale, ma un vero e proprio strumento di prevenzione. Gli studiosi parlano di “micro-dosi naturali”, cioè brevi esposizioni ripetute che sommate nel tempo producono effetti comparabili, in alcuni casi, a interventi strutturati per la gestione dell’ansia. Le amministrazioni che stanno investendo in corridoi verdi, tetti piantumati e micro-parchi interni ai quartieri stanno di fatto creando un’infrastruttura sanitaria distribuita, capace di raggiungere persone che spesso non hanno tempo, mezzi o motivazione per pratiche formali di meditazione. Il dato interessante è che questi benefici non richiedono preparazione né particolari abilità: sedersi su una panchina, osservare il movimento delle foglie, seguire con lo sguardo la luce filtrata tra gli alberi sono azioni che attivano automaticamente risposte fisiologiche di calma e regolazione emotiva. Alcuni ricercatori suggeriscono perfino di inserire brevi “minuti verdi” nella routine lavorativa, soprattutto in contesti ad alta densità di stimoli digitali, come forma di ripristino cognitivo. Per il lettore curioso di crescita personale, questa prospettiva introduce un cambiamento importante: il benessere mentale non è necessariamente legato a pratiche lunghe o complesse, ma alla continuità con cui nutriamo i nostri sistemi sensoriali. E se l’ambiente urbano può diventare un alleato, la sfida è imparare a riconoscerlo come tale.
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Terra: da verde a grigia...

Paolo D’Arpini - Rete Bioregionale Italiana
Nella definizione di bioregione si prefigura un territorio caratterizzato dalle sue conformazioni geologiche naturali e dalle forme di vita che vi si svolgono, quindi anche dall'uomo. Il problema è -soprattutto nei luoghi densamente abitati dalla nostra specie- che la morfologia del territorio subisce enormi mutazioni a causa nostra. Non si parla più di ambienti naturali, ovvero di bioregioni governate dalla natura, come poteva essere la foresta amazzonica, la tundra, la pampa, gli ambienti montani od i deserti, ecc. Con la costante crescita della popolazione umana, degli agglomerati urbani, delle industrie, degli allevamenti e delle coltivazioni intensive, della sfruttamento di tutte le risorse reperibili in qualsiasi ambiente, ecc. ormai si può dire che le "bioregioni", ovvero i luoghi governati dalla natura, sono ormai in esaurimento e definitivamente compromessi. Ad esempio, per quanto riguarda il consumo di suolo e delle aree verdi nell’UE è stato appurato che, ogni anno, l’Europa perde 1.500 km² per edifici e infrastrutture ed invasione delle aree naturali per scopi destinati agli umani. Stiamo perdendo, ad un ritmo di 30 km² alla settimana, l’equivalente di 600 campi da calcio al giorno. L’Italia è al 6° posto, con 479 km² di terre naturali distrutte negli ultimi anni... (Fonte: Salviamo il Paesaggio) Ma la distruzione dell'ambiente naturale e della biodiversità non è solo un problema del cosiddetto "primo mondo civilizzato", ormai la devastazione ha raggiunto tutti gli ambiti territoriali, con escavazioni per l'estrazione degli ultimi giacimenti di materie prime necessarie al mantenimento del sistema economico e tecnologico. Causa questa -inoltre- di competizioni, guerre di rapina e inquinamento sempre più estensivo e definitivo. Forse oggi parlare di bioregionalismo, come fecero i poeti bioregionalisti americani degli anni '70 del secolo scorso, ormai significa soltanto esprimere "nostalgicamente" un rimpianto per la vita che abbiamo distrutto, quella degli altri esseri viventi e dei nostri successori umani (se mai ci saranno). Se la specie umana sarà in grado di fermarsi, prima del crollo finale, prima di alienarsi ciò che è quasi irrimediabilmente perduto, o lungi dall'essere parzialmente riconquistato, forse sarà in grado di intraprendere un cammino pratico verso un modo reale di vivere il bioregionalismo. Altrimenti andiamo avanti con l'ambientalismo di facciata stile "Mulino Bianco" e finché dura c'è verdura... Paolo D'Arpini - Rete Bioregionale Italiana


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