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Spiritual News
Nelle settimane che precedono il Natale 2025, una tendenza sta emergendo in modo netto nei rapporti di osservatori pubblici e istituzioni internazionali: un numero crescente di famiglie e individui sceglie di ridurre l’uso degli schermi durante il periodo festivo, con l’obiettivo dichiarato di recuperare una qualità di presenza percepita come compromessa negli ultimi anni. Dati già consolidati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e ricerche dell’American Psychological Association indicano che il sovraccarico digitale è ormai riconosciuto come uno dei fattori principali di stress, ansia e calo dell’attenzione. Questo contesto ha favorito un aumento dell’interesse verso pratiche di “digital detox”, che stanno trovando nel periodo natalizio un terreno particolarmente fertile. A testimoniarlo sono anche i primi bilanci di diversi programmi pubblici europei dedicati al benessere mentale, che segnalano una richiesta crescente di iniziative orientate alla gestione consapevole della tecnologia. Il fenomeno assume forme diverse da paese a paese, ma presenta un tratto comune: la ricerca di maggiore profondità nelle relazioni e nei momenti condivisi. Alcune scuole hanno introdotto giornate pre-natalizie in cui la consegna dei lavori avviene esclusivamente tramite attività offline; gruppi civici e parrocchie organizzano serate “schermi spenti” per promuovere attività intergenerazionali; in numerosi contesti familiari cresce l’abitudine di dedicare alcune ore della vigilia o del giorno di Natale alla lettura, al dialogo o a camminate collettive. Secondo le analisi diffuse dal Pew Research Center, il 2024 ha segnato un aumento significativo delle persone che dichiarano di sentirsi “troppo connesse” e di percepire una perdita di confini tra tempo personale e tempo digitale. Questi dati trovano riscontro nella diffusione di rituali che puntano a ristabilire tali confini, soprattutto in occasione delle festività. L’obiettivo non è demonizzare la tecnologia, ma modularne l’uso per ridurre distrazioni e ristabilire un senso di presenza autentica. Molti dei professionisti del benessere psicologico notano un altro fattore rilevante: la disconnessione temporanea favorisce rituali emotivamente significativi. La tradizione dei “diari di fine anno”, delle lettere personali e dei momenti di riflessione guidata sta tornando a diffondersi, in parte perché la scrittura manuale sembra facilitare processi di integrazione emotiva. Alcuni centri di supporto psicologico, in Europa e Nord America, sottolineano come la combinazione tra festività e riduzione digitale contribuisca a diminuire la sensazione di sovraccarico cognitivo che molti riportano durante il mese di dicembre. Il contesto socioeconomico gioca un ruolo non secondario. Le analisi Eurostat degli ultimi anni evidenziano un incremento costante del tempo trascorso online, spinto sia dal lavoro da remoto sia dal consumo di intrattenimento digitale. Di fronte a questa tendenza, l’idea di un “Natale silenzioso” — non inteso come assenza di attività, ma come riduzione del rumore informativo — appare come una risposta spontanea a un equilibrio percepito come fragile. Non mancano, tuttavia, aspetti critici. Per alcuni lavoratori, soprattutto nei settori essenziali e nei servizi digitali, disconnettersi non è semplice né sempre possibile. Gli esperti ricordano che il rischio è creare un’aspettativa normativa: chi non riesce a staccare potrebbe percepire il proprio comportamento come sbagliato o insufficiente. Le iniziative più efficaci, infatti, non impongono restrizioni assolute, ma invitano a definire spazi circoscritti e realistici di sollievo digitale. Il fenomeno appare comunque destinato a crescere. Diversi enti pubblici stanno includendo nei loro programmi natalizi suggerimenti pratici per una gestione equilibrata della tecnologia. Si va dagli inviti a creare “zone senza schermi” nelle case, fino a proposte di rituali collettivi come brevi meditazioni, letture condivise o semplici momenti strutturati di gratitudine. L’obiettivo rimane lo stesso: restituire profondità a interazioni che rischiano di essere continuamente interrotte. La tendenza non cancella l’uso della tecnologia durante le feste — che rimane un elemento centrale nelle connessioni a distanza, soprattutto tra familiari che vivono in città o paesi diversi — ma propone un uso più intenzionale e meno dispersivo. Il Natale, tradizionalmente associato al raccoglimento, diventa così un’occasione per sperimentare modalità più equilibrate di stare insieme.
Pubblicazioni e Saggi
Paolo D'Arpini
Il saggio Ramana Maharshi a chi gli chiedeva quale fosse il modo più semplice per “raggiungere” la consapevolezza di Sé (nel senso dell’autorealizzazione) consigliava l’autoindagine, attraverso l’interrogarsi “chi sono io”. E se qualcuno insisteva per avere delle norme esteriori di comportamento allora consigliava di assumere solo cibo “satvico” e in quantità moderata. Il cibo “satvico” è in effetti la cosiddetta dieta vegetariana, quella più vicina all’alimentazione naturale dell’uomo. L’uomo è nato frugivoro, la sua conformazione anatomica è simile a quella degli altri frugivori: suini, scimmie antropomorfe, etc. Questi animali, come dovrebbe essere per l’uomo, si nutrono essenzialmente di semi, proteine vegetali, verdure, frutta, tuberi, latte materno, integrando il tutto – di tanto in tanto – con qualche altro prodotto di origine animale, come ad esempio il latte di altri mammiferi, piccole quantità di miele, uova e simili. Eccezionalmente e per scopi integrativi essi fanno anche uso di moderate quantità di pesce o carne. Ovviamente, nella dieta “satvica”, consigliata ai ricercatori spirituali, la carne non è compresa, poiché il cadavere, essendo un composto organico in putrefazione, è considerato un alimento “tamasico” (oscurante) per la mente. Tra l’altro gli animali sono considerati a tutti gli effetti muniti di “anima” e quindi visti come esseri spirituali simili all’uomo. Cibarsene è considerata perciò una forma di “cannibalismo”. La filosofia dei Veda – scrive Steven Rosen nel suo illuminante libro Il vegetarianesimo e le religioni del mondo – riconosce appieno agli animali la capacità di raggiungere stati di spiritualità elevata. Si tratta di una tradizione religiosa che non promuove soltanto il vegetarismo, ma anche l’uguaglianza spirituale di tutti gli esseri viventi. Il vegetarismo in effetti non è altro che la conferma di questa consapevolezza: tutti gli esseri viventi sono spiritualmente uguali. Tra l’altro, nell’induismo vengono indicate anche altre ragioni per cui è necessario astenersi dall’ingerire cadaveri perché nell’atto di cibarsi dell’altrui carne si crea un legame karmico con la violenza e la morte. Malgrado vi siano indicazioni di sacrifici cruenti da compiere una o due volte all’anno persino il Corano esalta la compassione e la misericordia di Allah — chiamato al-Raham, ovvero “l’infinitamente misericordioso” — nei confronti di tutti gli esseri da lui creati, senza eccezioni. Lo stesso profeta Maometto, che presumibilmente era vegetariano e amava gli animali, disse: «Chi è buono verso le creature di Dio è buono verso se stesso». Per quanto riguarda l’Ebraismo, nella Genesi l’alimentazione prescritta all’uomo è chiaramente vegetariana: «Ecco vi do ogni vegetale che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto che produce seme: saranno il vostro cibo» (1, 29). E ancora nella Genesi si legge: «Non dovreste mangiare la carne, con la sua vita, che è il sangue». E infatti, secondo le leggende bibliche, il popolo d’Israele si mantenne vegetariano per dieci generazioni, da Adamo a Noè. Solo dopo che il diluvio universale ebbe distrutto tutta la vegetazione, si narra che Dio diede al “suo” popolo il permesso temporaneo di mangiare carne. Poi, per ristabilire l’alimentazione vegetariana, quando gli israeliti lasciarono l’Egitto, Dio fece cadere la manna, un alimento vegetale adatto a nutrirli durante il loro duro viaggio. Ma, poiché gli israeliti continuavano a chiedere con insistenza la carne, Dio gliela concesse, insieme però a una peste fatale che colpì tutti coloro che ne mangiarono. Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, e quindi il Cristianesimo, l’insegnamento di Gesù (nato di origine essena, una setta che praticava il vegetarismo) è stato a tal punto censurato nelle numerose traduzioni e revisioni dei Vangeli che sono quasi sparite le tracce della sua compassione e del suo completo amore per tutte le creature viventi, che si esprimevano anche nel non mangiare carne di alcun tipo, in armonia con la tradizione degli Esseni. In un “Vangelo secondo Giovanni” tramandato dagli Esseni e dalle Chiese cristiane d’Oriente ma rifiutato dalla Chiesa cattolica, si insegna l’assoluta nonviolenza nei confronti degli animali ed è vietato esplicitamente di mangiare carne: «Mangiate tutto ciò che si trova sulla tavola di Dio: i frutti degli alberi, i grani e le erbe dei campi, il latte degli animali ed il miele delle api. Ogni altro alimento è opera di Satana e conduce ai peccati, alle malattie e alla morte». I primi cristiani erano vegetariani. E lo furono anche i veri Padri della Chiesa, come san Giovanni Crisostomo, San Girolamo, Tertulliano, San Benedetto, Clemente, Eusebio, Plinio e molti altri. Ma quando il Cristianesimo volle diventare la religione di Stato dell’Impero Romano, durante il concilio di Nicea vennero radicalmente alterati i documenti originali. I “correttori” nominati dalle autorità ecclesiastiche eliminarono dai vangeli qualsiasi riferimento al non mangiare carne: tradussero con il termine «carne», per ben diciannove volte, il termine greco originale «cibo” e scelsero la versione «dei pani e dei pesci” a quella, contemporanea a Cristo, del miracolo della «moltiplicazione dei pani e della frutta”. Ciononostante anche in seguito alcuni santi cristiani sono stati vegetariani. Basti pensare al più famoso di tutti, san Francesco, il quale, nel suo amore per tutte le creature viventi, si nutriva esclusivamente di pane, formaggio, verdure e acqua di fonte. La compassione che sta alla base di ogni “fede” va ricercata interiormente, e mangiare carne, diceva Lev Tolstoi, «è immorale perché presuppone un’azione contraria al sentimento morale, quella di uccidere. Uccidendo, l’uomo cancella in se stesso le più alte capacità spirituali, l’amore e la compassione per le altre creature». Quindi, a che serve giustificare o preferire una religione all’altra? Sono le persone che fanno la differenza! Sono tutti quegli uomini e quelle donne “compassionevoli” che non si limitano a riti esteriori ma che nutrono compassione per se stessi e per tutte le altre creature. Insomma, ricapitolando, l’Induismo, l’Ebraismo, l’Islamismo e il Cristianesimo contengono di fondo lo stesso messaggio di compassione e nonviolenza, ricordo anche le parole del Buddha nel Dhammapada: «In futuro, alcuni sciocchi sosterranno che io ho dato il permesso di mangiare carne,e che io stesso ne ho mangiata, ma io non ho permesso a nessuno di mangiare carne, non lo permetterò ora, non lo permetterò in alcuna forma, in alcun modo e in alcun luogo». Paolo D’Arpini - Comitato per la spiritualità laica