ven, 13 dicembre 2024

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Spiritual News
Un nuovo fenomeno sta ridefinendo il concetto di viaggio in Italia. I pellegrinaggi tradizionali lasciano il posto a esperienze di ricerca personale che vanno molto oltre il turismo convenzionale. L'Osservatorio Nazionale sul Turismo Esperienziale ha rivelato un dato eloquente: nel 2023, oltre 180.000 italiani hanno intrapreso viaggi con l'obiettivo esplicito di crescita personale, segnando un incremento del 45% rispetto agli anni precedenti. I nuovi viaggiatori non cercano più semplicemente una destinazione, ma un percorso di trasformazione. I cammini più gettonati spaziano dal tradizionale Cammino di Santiago ai trekking in Nepal, dai percorsi nella Via Francigena ai tragitti nei deserti del Marocco. Protagonisti sono principalmente professionisti di età compresa tra i 35 e i 45 anni, con un'istruzione medio-alta e un profondo interesse per le pratiche contemplative. L'universo di questi pellegrinaggi laici ha assunto una dimensione economica significativa, con un fatturato stimato intorno ai 620 milioni di euro e una crescita del 37% nel settore delle guide esperienziali. Non si tratta solo di turismo, ma di un vero e proprio movimento culturale che ridefinisce il concetto di viaggio. Le ricerche scientifiche confermano i benefici di questi percorsi. Uno studio dell'Università di Trento ha documentato risultati sorprendenti: una riduzione dello stress del 40%, un miglioramento della resilienza psicologica e un significativo incremento dell'autoconsapevolezza. Marco Rossi, un project manager milanese di 42 anni, racconta la sua esperienza: "Il mio cammino in Portogallo è stato molto più di un viaggio. È stato un vero reset esistenziale che mi ha permesso di ricostruire le mie priorità personali e professionali". Il fenomeno non è privo di criticità. Gli esperti avvertono del rischio di mercificazione dell'esperienza spirituale e sottolineano l'importanza di approcci autentici e profondi. Ciò che emerge è un nuovo modo di intendere il viaggio: non più spostamento geografico, ma percorso di trasformazione personale che sfuma i confini tra movimento esteriore e ricerca interiore.
Pubblicazioni e Saggi
Paolo D’Arpini
Il primo passo verso la riarmonizzazione delle aree urbane è il riconoscimento che esse si trovano tutte in bioregioni, all’interno delle quali possono divenire protagoniste ed ecosostenibili. La peculiarità dei suoli, bacini fluviali, piante e animali, clima, variazione stagionale e altre caratteristiche, che sono presenti in un dato ecosistema, costituiscono il contesto base per l’approvvigionamento delle risorse: cibo, energia e materiali vari. Affinché questo avvenga in modo sostenibile, le città devono identificarsi e porsi in reciproco equilibrio con i sistemi naturali… Ri-abitare il luogo in cui si è… Essendo vissuto per moltissimi anni in un contesto urbano (sono nato e vissuto a Roma ed ho anche abitato per diversi anni a Verona), ed avendo anche tentato un esperimento di ri-abitazione di un piccolo borgo abbandonato, Calcata, con conseguente tentativo di ricostituire o -perlomeno- avviare un processo di comunità ideale (non so con quale successo…), posso affermare che massimamente il mio procedere “bioregionale” si è svolto in un ambito sociale “cittadino”. Ma attenzione, essere un cittadino non significa abitare in città bensì vuol dire riconoscersi in un “organismo” comunitario umano. Dal 2010 mi sono trasferito in una cittadina delle Marche, Treia, e questo è un successivo passo avanti verso la mia ricerca di una sistemazione sociologica ideale…. Infatti Roma è abitata da 6 milioni di persone, è insomma una metropoli, Verona conta quasi mezzo milione di abitanti, Calcata meno di mille… Mentre Treia arriva quasi a diecimila. Insomma sto cercando una giusta via di mezzo, adatta al mantenimento di un sano rapporto con l’ambiente e gli animali senza dover rinunciare ai vantaggi della “civitas”, essendo noi umani esseri altamente socializzanti…. La parola “Bioregionalismo” come pure il termine “Ecologia profonda” sono neologismi coniati verso la fine degli anni ‘70 del secolo scorso, rispettivamente da Peter Berg ed Arne Naess, uno scrittore ed un ecologista, ma rappresentano un modo di vivere molto più antico, che anzi fa parte della storia della vita sul pianeta ed ha contraddistinto tutte le civiltà umane (sino all’avvento dell’industrializzazione selvaggia e del consumismo). Diciamo che il “bioregionalismo” (che equivale all’ecologia profonda) contraddistingue un modo di pensare che muove dall’esigenza profonda di riallacciare un rapporto sacrale con la terra. Questo rapporto si conquista partendo dalla volontà di capire -riabitandolo- il luogo in cui viviamo. Una bioregione infatti non è un recinto di cui si stabiliscono definitivamente i confini ma una sorta di campo magnetico (aura – genius loci) distinguibile dai campi vicini solo per l’intensità delle caratteristiche che formano la sua identità, alla stessa stregua degli esseri umani, contemporaneamente diversi e simili l’uno all’altro. In una ottica bioregionale – dovendo analizzare i requisiti antropologici di una città ideale – occorre prima vedere gli aspetti di cosa è una città. Noi usiamo il termine città che deriva da “civitas” ma dobbiamo considerare anche l’altra definizione “urbs”, questi due termini hanno pari valore nella fondazione ed urbanizzazione del luogo abitativo. Dal punto di vista antropologico sappiamo che una piccola comunità di 1000 persone consente a tutti i suoi membri la conoscenza personale ed inter-relazione reciproca. Ogni cosa prodotta ha come fruitori i membri tutti ed altrettanto dicasi per quanto è scartato. Nelle comunità antiche, nelle tribù che furono la base della vita umana per migliaia di anni, la reciprocità o solidarietà era elemento di sopravvivenza e sviluppo. Quando lentamente si giungeva ad una summa di tribù dello stesso ceppo originario (diciamo cento entità di 1000 componenti) si diceva che era nato un popolo, una società, insomma una “civitas”. Dobbiamo quindi partire da un elemento precostituito e cioé che l’ambito di una “comunità ideale” non dovrebbe superare i centomila abitanti. Ciò vale anche per una metropoli che andrebbe suddivisa in quartieri di tale entità. Perché? Per un semplice motivo: se tutti i componenti di una comunità “originaria” hanno interrelazioni in allargamento (diaspora) sarà possibile connettersi indirettamente o direttamente con gli appartenenti ai vari gruppi che compartecipano allo stesso luogo. Tutti individui diversi dal gruppo originario ma tutti “elementi effettivi” della stessa collettività. Ampliando così il ramo di interesse dalla parentela vicina o lontana alla compartecipazione, somiglianza e convivenza nello stesso luogo. A questo punto le varie entità (o gruppi di individui) son paritetiche l’un l’altra, intrecciate in un contesto di relazioni e formano la base della città ideale. Forse i membri della città apparterranno a ceti diversi ma assieme a noi vivono nella città, con essi manteniamo numerosi rapporti personali come fra membri di una tribù ideale. Questa si può definire società ed il processo descritto conduce a forte correlazione e socializzazione e vivifica l’intera comunità. Ma si può dire che centomila abitanti son un limite. Giacché questo è il livello d’interrelazione possibile e la città bioregionale -secondo me- deve comprendere criteri di suddivisione sociale che rispettino questi termini numerici. Non ho nulla contro la vita umana negli agglomerati umani, ma occore portare elementi di riequilibio all’insieme degli elementi vitali, materiali od architettonici che siano. Il primo passo verso la riarmonizzazione delle aree urbane è il riconoscimento che esse si trovano tutte in bioregioni, all’interno delle quali possono divenire protagoste ed ecosostenibili. La peculiarità dei suoli, bacini fluviali, piante e animali nativi, clima, variazione stagionale e altre caratteristiche che sono presenti in un luogo-vita bioregionale (ecosistema), costituiscono il contesto base per l’approvvigionamento delle risorse quali: cibo, energia e materiali vari. Affinché questo avvenga in modo sostenibile, le città devono identificarsi e porsi in reciproco equilibrio con i sistemi naturali. Non solo devono reperire localmente le risorse per soddisfare i bisogni dei propri abitanti ma devono altresì adattare i propri bisogni alle condizioni locali. Questo significa mantenere le caratteristiche naturali che ancora rimangono intatte e/o ripristinarne quante più possibili. Per esempio risanando baie inquinate, laghi e fiumi affinché possano ridiventare habitat salubri per la vita acquatica, contribuendo in tal modo all’autosufficienza delle aree urbane. Le condizioni che contraddistinguono le aree geografiche dipendono dalle loro peculiari caratteristiche naturali: una ragione in più per adottare i principi base del bioregionalismo, appropriati e specifici per ogni luogo e -soprattutto- utilizzabili per orientare al meglio le politiche municipali. Le linee guida di questo mutamento possono essere prese da alcuni principi base che governano gli ecosistemi: 1) Interdipendenza. Accrescere la consapevolezza dell’interscambio fra produzione e consumo, affinché l’approvvigionamento, il riuso, il riciclaggio e il ripristino possano diventare integrabili. 2) Diversità. Sostenere la diversità di opinione così da soddisfare i bisogni vitali oltreché una molteplicità di espressioni culturali, sociali e politiche. Resistere a soluzioni che privilegino i singoli interessi e la monocultura. 3) Autoregolamento. Incoraggiare le attività decentralizzate promosse da gruppi di quartiere-distretti. Rimpiazzare la burocrazia verticistica con assemblee di gruppi locali. 4) Sostenibilità economica. Scopo della politica è quello di operare con interessi lungimiranti, minimizzando rimedi fittizi ed incentivando un processo di riconversione ecologica a lungo termine. Mi sembra che il materiale trattato per il momento possa bastare al fine di una riflessione sul tema. Paolo D’Arpini – Rete Bioregionale Italiana
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Digitale e Mindfulness: la Nuova Frontiera del…

Spiritual News
La tecnologia ridisegna i confini della spiritualità contemporanea, trasformando le pratiche contemplative in esperienze digitali misurabili e personalizzate. Un fenomeno in rapida espansione che sta rivoluzionando il modo in cui le persone affrontano il benessere mentale. Secondo gli ultimi rapporti di settore, il mercato mondiale delle app di mindfulness ha raggiunto nel 2023 un valore di 4,5 miliardi di dollari, con stime di crescita fino a 8,5 miliardi entro il 2028. Headspace conta oltre 70 milioni di utenti, mentre Calm ha registrato un incremento del 400% durante la pandemia. Le nuove piattaforme utilizzano intelligenza artificiale per creare percorsi di meditazione su misura. Woebot, un chatbot basato su tecniche cognitivo-comportamentali, analizza in tempo reale lo stato emotivo degli utenti, offrendo supporto personalizzato. Dispositivi come Muse e Mindo introducono il biofeedback scientifico nelle pratiche meditative. Questi strumenti misurano parametri come la variabilità cardiaca, fornendo feedback in tempo reale e tracciando i progressi neurologici degli utenti. La realtà virtuale si affaccia nel mondo della meditazione con startup come TRIPP, che creano ambienti immersivi progettati per esperienze contemplative totalmente personalizzate. Una ricerca dell'Università di Harvard conferma l'efficacia di questi nuovi approcci: il 45% dei partecipanti ha riscontrato benefici significativi nella gestione dello stress attraverso tecnologie digitali. Emergono tuttavia criticità etiche: esperti sollevano dubbi sulla protezione dei dati personali e sul rischio di mercificare l'esperienza spirituale. Il dibattito è aperto tra sostenitori dell'innovazione tecnologica e difensori delle pratiche tradizionali. Il fenomeno rappresenta una svolta: la spiritualità laica non è più un percorso individuale isolato, ma un'esperienza condivisa, migliorabile e costantemente ottimizzabile attraverso la tecnologia.
Pubblicazioni e Saggi

Il linguaggio unisce o divide?

Paolo D'Arpini
A volte le parole possono creare discordia fra gli uomini… L’incomprensione sorta con la diversità dei linguaggi, volendo comprendere l’altro attraverso il linguaggio parlato, è alla base delle antipatie che gli esseri umani percepiscono gli uni verso gli altri oppure le affinità che si percepisco verso chi parla la nostra stessa lingua. Prova ne sia il negro che ci parla in bantu viene visto con sospetto e timore, mettete che lo stesso negro si mette a parlare in italiano, o addirittura nel nostro dialetto familiare, ecco che improvvisamente diviene uno di noi, un fratello di colore diverso. Questa verità l’ho potuta sperimentare svariate volte a Calcata dove la comunità etnica è molto variegata però siccome parlavamo tutti allo stesso modo, al massimo con un leggero accento straniero (tra l’altro ognuno di noi aveva un leggero accento d’origine essendo tutti forestieri), ecco che diventavamo comunque tutti calcatesi, indipendentemente se siculi, romani, veneti, europei est ovest, americani nord sud, africani, etc. etc. Il linguaggio comune unisce ed all’inizio tutti gli umani parlavano la stessa lingua, il “nostratico” viene chiamato in glottologia, poi da quella radice, nella diaspora umana planetaria, sono sorti rami e ramoscelli sempre più diversi. La mitologia della Torre di Babele è simbolica ma veritiera. Gli uomini appena salvatisi dal diluvio universale invece che andare a ri-abitare il pianeta, ridiventato fertile dopo il cataclisma, si concentrarono tutti in un luogo e cominciarono ad erigere un monumento di ringraziamento a Dio (forse però a quel tempo era la Dea), simbolicamente questa torre zigurratica saliva sempre più in altezza (per arrivare in cielo) ma l’uomo è fatto per la terra e così Dio (o la Dea) confuse i linguaggi e gli uomini che non potevano più comprendersi si allontanarono in gruppi omogenei alla conquista del mondo, chi qua chi là, finché tutto il pianeta fu abitato. Certo questa è una favola ma fa pensare come la differenza delle lingue allontani l’uomo dall’uomo. Sarà per questo che in ogni epoca un potere emergente cerca di stabilirsi attraverso una lingua? Sicuramente è avvenuto così.. il sanscrito, il greco, il latino… ed ora l’inglese, come lingue veicolari temporali, ne sono riprova. Ma aspetta aspetta, non intendevo fare semplicemente un discorso semantico linguistico, anzi, volevo parlare dell’unico elemento che è in grado di unire e di far riconoscere l’uomo in se stesso e agli altri come manifestazione della stessa matrice vitale. Questo elemento è la “coscienza-intelligenza”, che unisce tutti i viventi e -in latenza- anche il mondo inorganico. Questa coscienza/intelligenza è stata definita da tempo immemorabile “spirito” (diverso da anima che sottintende una personalità individuale). Lo spirito tutti ci accomuna poiché Spirito e vita sono consequenziali ed inseparabili. Possiamo chiamarla Biospiritualità, una forza legante universale, aldilà del linguaggio, che è l’espressione, l’odore sottile, il messaggio intrinseco, che traspira dalla materia tutta. Il sentimento di costante presenza indivisa, la consapevolezza dell’inscindibilità della vita, riconoscibile in ogni sua forma e componente, partendo dal “soggetto” percepente, questa è la pratica stabile dell’essere biospirituale. La conoscenza suprema significa sapere che tutto quel che “è” lo è in quanto tale. Perché l’esistente è uno, non può esserci “altro”… Ed infatti l’ostacolo posto dalle religioni e dalle ideologie è proprio quello di basarsi su un linguaggio, sulla descrizione culturalmente adattata per esportare una specifica cultura. Ma allorché l’oscuramento viene rimosso dal cuore dell’uomo, improvvisamente ci troviamo a Casa, cioè torniamo alla “lingua universale” da tutti compresa. Possiamo definire questo stato “liberazione” dall’illusorio senso di separazione, poiché la biospiritualità non può ammettere separazione. Paolo D’Arpini – Rete Bioregionale Italiana


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