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Una Società della Decrescita
Il testo che segue è di Serge Latouche, uno tra i massimi studiosi al mondo del fenomeno della mondializzazione, professore di Scienze Economiche all'Università di Paris-Sud, nome di spicco del MAUSS (Movimento Antiutilitarista nella Scienze Sociali),membro dell'INCAD (Internazionale Network for Cultural Alternatives to Development) di Montreal e della Rete Culture e sviluppo Nord/Sud di Bruxelles. È ricercatore dell'ORSTOM e del Centro studi comparati sullo sviluppo. È membro del comitato scientifico della rivista Ecologia Politica. È noto, oltre che come economista eterodosso (così lui stesso si definisce), come storico dell'economia e della cultura ed esperto d’epistemologia delle scienze sociali.
«Sarebbe senz'altro una bella soddisfazione poter mangiare alimenti sani, vivere in un ambiente equilibrato e meno rumoroso, non subire più i condizionamenti del traffico ecc.» (Jacques Ellul)
Il 14 febbraio 2002, a Silver Spring, davanti ai responsabili americani della meteorologia, Gorge W. Bush ha dichiarato: «La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema».
Di fondo, questa posizione «pro-crescita» è condivisa dalla sinistra, compresi anche molti «altromondisti» che nella crescita vedono la soluzione del problema sociale, attraverso la creazione di posti di lavoro e una più equa ripartizione dei redditi. La nostra felicità deve per forza passare per l'aumento della crescita, della produttività, del potere d'acquisto e quindi dei consumi.
Mentre lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre del petrolio, cui seguiranno quelle per l'acqua, ma non solo. Si temono pandemie, e corriamo inoltre il rischio della scomparsa di specie vegetali e animali essenziali in seguito alle prevedibili catastrofi biogenetiche. In queste condizioni, la società della crescita non è né sostenibile, né auspicabile. È dunque urgente pensare a una società della «decrescita», se possibile serena e conviviale.
La crescita fine a se stessa è insostenibile, in quanto si scontra con i limiti della biosfera. Se si assume come indice dell'impatto ambientale del nostro stile di vita l'«impronta» ecologica, misurata in termini di superficie terrestre, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal punto di vista dell'equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera.
ECO-DEFICIENZA
Per conciliare i due imperativi contraddittori della crescita e del rispetto per l'ambiente, gli esperti pensano di aver trovato la pozione magica nell'ecoefficienza: un concetto cruciale, che rappresenta in verità l'unica base seria dello «sviluppo sostenibile». Si tratta di ridurre progressivamente l'impatto ecologico e l'incidenza del prelievo di risorse naturali, per raggiungere un livello compatibile con la capacità di carico accertata del pianeta.
Indubbiamente, l'efficienza ecologica è notevolmente migliorata; ma poiché la corsa forsennata alla crescita non si ferma, il degrado globale del pianeta continua ad aggravarsi.
Se da un lato l'impatto ambientale per unità di merci prodotte è diminuito, questo risultato è sistematicamente azzerato dall'aumento quantitativo della produzione: un fenomeno cui si è dato il nome di «effetto rimbalzo». È vero che la «nuova economia» è relativamente più immateriale (o meno materiale); ma essa non viene a sostituire, bensì a completare l'economia tradizionale. E tutti gli indici dimostrano che a conti fatti il prelievo continua ad aumentare.
TECNO-UTOPIA
Infine, ci vuole proprio la fede incrollabile degli economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro possa essere in grado di risolvere tutti i problemi, e per ritenere illimitate le possibilità di sostituire la natura con l'artificio.
ANTI-SOCIETÀ
Vivere diversamente per vivere meglio. La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: perché incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie; perché dispensa un benessere largamente illusorio, e perché non offre un tipo di vita conviviale neppure ai «benestanti»: è un'«antisocietà» malata della propria ricchezza. Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi del Nord si rivela sempre più un'illusione.
Indubbiamente, molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una serie di costi aggiuntivi che assumono forme diverse, non sempre monetizzabili, legate al degrado, non quantificabile ma subìto, della qualità della vita (aria, acqua, ambiente): spese di «compensazione» e di riparazione (farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita moderna, o determinate all'aumento dei prezzi di generi divenuti rari (l'acqua in bottiglie, l'energia, il verde...). Herman Daly ha compilato un indice sintetico, il «Genuine Progress Indicator» (Gpi) che rettifica il Prodotto interno lordo tenendo conto dei costi dovuti all'inquinamento e al degrado ambientale.
IL MITO DELLA CRESCITA
A partire dal 1970, per gli Stati uniti l'indice del «progresso genuino» è stagnante, o addirittura in regresso, mentre quello del Prodotto interno lordo continua registrare aumenti. Mentre si cresce da un lato, dall'altro si accentuano le perdite. In queste condizioni la crescita è un mito, persino all'interno dell'immaginario dell'economia del benessere, se non della società dei consumi.
La decrescita è una necessità, non un ideale in sé. E non può certo essere l'unico obiettivo di una società del dopo-sviluppo, o di un altro mondo possibile. Si tratta di fare di necessità virtù, e di concepire la decrescita per le società del Nord come un fine che ha i suoi vantaggi. Adottare la parola d'ordine della decrescita vuol dire innanzitutto abbandonare l'obiettivo insensato di una crescita fine a se stessa.
Ma attenzione: il significato di decrescita non è quello di crescita negativa, espressione antinomica e assurda che letteralmente è un po' come dire: «avanzare retrocedendo»; Come è noto, basta un rallentamento della crescita per allarmare le nostre società con la minaccia della disoccupazione e dell'abbandono dei programmi sociali, culturali e di tutela ambientale, che assicurano un minimo di qualità della vita. La decrescita è concepibile solo nell'ambito di una «società della decrescita», i cui contorni devono essere delineati.
Un primo passo per una politica della decrescita potrebbe essere quello di ridurre, se non sopprimere, l'impatto ambientale di attività tutt'altro che soddisfacenti. Si tratterebbe ad esempio di ridimensionare l'enorme mole degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta, con tutte le loro conseguenze negative: si potrebbe parlare di una «rilocalizzazione» dell'economia.
Non meno importante è ridimensionare la pubblicità più invadente e rumorosa, e contrastare la prassi di accelerare artificialmente l'obsolescenza dei manufatti e la diffusione di prodotti usa e getta, la cui sola giustificazione è quella di far girare sempre più vorticosamente la megamacchina infernale.
Tutto ciò rappresenta, nel campo dei consumi materiali, una notevole riserva per la decrescita.
LA SOCIETÀ DELL'ABBONDANZA
Intesa in questo modo, una società della decrescita non comporta necessariamente un regresso sul piano del benessere. Fin dal 1848 Karl Marx riteneva che i tempi fossero maturi per la rivoluzione sociale; c'erano già le condizioni per il passaggio alla società comunista dell'abbondanza. L'incredibile sovrapproduzione dei cotonifici e di altre manifatture gli sembrava più che sufficiente, una volta abolito il monopolio del capitale, per garantire alla popolazione (o quanto meno a quella occidentale) l'alimentazione, l'alloggio e il vestiario. Eppure la «ricchezza» materiale era incomparabilmente inferiore a quella di oggi.
Non c'erano macchine né aerei, non esisteva la plastica, e neppure le lavatrici, i frigoriferi, i computer, le biotecnologie, i pesticidi, i fertilizzanti chimici o l'energia atomica. Nonostante gli inauditi effetti dell'industrializzazione, i bisogni erano ancora modesti e il loro soddisfacimento era possibile. La felicità, o almeno la sua base materiale, sembrava a portata di mano.
Per concepire e realizzare una società di decrescita serena dovremo rimettere in discussione il dominio dell'economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria come nella pratica, ma soprattutto nelle nostre menti. Una condizione necessaria è la drastica riduzione dell'orario di lavoro imposto, per assicurare a tutti un impiego soddisfacente.
LE SEI R
Fin dal 1981 Jacques Ellul, uno dei primi pensatori di una società della decrescita, aveva fissato per l'orario di lavoro l'obiettivo di un massimo di due ore al giorno. Ispirandosi alla Carta «Consumi e stile di vita» proposta dal Forum delle organizzazioni non governative (Ong) di Rio, tutto questo si potrebbe sintetizzare in un «programma delle 6 R»: Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Questi sei obiettivi interdipendenti avvieranno un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile. Si potrebbero aggiungere varie altre R a quelle elencate: rieducare, riconvertire, ridefinire, rimodellare, ripensare ecc.; e naturalmente «rilocalizzare». Ma tutte queste «R» sono già più o meno incluse nelle prime sei.
Si vede subito quali sono i valori prioritari da anteporre a quelli oggi dominanti: l'altruismo dovrebbe prevalere sull'egoismo, la cooperazione sulla competizione sfrenata, il piacere dello svago sull'ossessione del lavoro, l'importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto del lavoro ben fatto sull'efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale, e così via.
ROVESCIARE IL SISTEMA
Il problema è che i valori attualmente dominanti sono sistemici, in quanto suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Ma senza una sua radicale contestazione, il cambiamento rischia di rimanere limitato.
Un programma troppo vasto e utopistico? E fino a che punto la transizione potrebbe avvenire senza una rivoluzione violenta? O più esattamente, la necessaria rivoluzione mentale è possibile senza violenza sociale?
Se il mercato e il profitto potessero sussistere come incentivi, non dovrebbero più costituire il fondamento del sistema. Si potrebbero concepire misure progressive da adottare in una serie di tappe.
Una cosa è certa: l'inquietante canicola dell'estate 2003, in particolare nell'Europa sud- occidentale, sta a dimostrare la necessità di una società della decrescita e una “pedagogia delle catastrofi”.
[Testo originale di Serge Latouche, Pour une société de décroissance, “Le Monde Diplomatique”, novembre 2003, traduzione di E. H.]
Alessio Mannucci
«Sarebbe senz'altro una bella soddisfazione poter mangiare alimenti sani, vivere in un ambiente equilibrato e meno rumoroso, non subire più i condizionamenti del traffico ecc.» (Jacques Ellul)
Il 14 febbraio 2002, a Silver Spring, davanti ai responsabili americani della meteorologia, Gorge W. Bush ha dichiarato: «La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema».
Di fondo, questa posizione «pro-crescita» è condivisa dalla sinistra, compresi anche molti «altromondisti» che nella crescita vedono la soluzione del problema sociale, attraverso la creazione di posti di lavoro e una più equa ripartizione dei redditi. La nostra felicità deve per forza passare per l'aumento della crescita, della produttività, del potere d'acquisto e quindi dei consumi.
Mentre lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre del petrolio, cui seguiranno quelle per l'acqua, ma non solo. Si temono pandemie, e corriamo inoltre il rischio della scomparsa di specie vegetali e animali essenziali in seguito alle prevedibili catastrofi biogenetiche. In queste condizioni, la società della crescita non è né sostenibile, né auspicabile. È dunque urgente pensare a una società della «decrescita», se possibile serena e conviviale.
La crescita fine a se stessa è insostenibile, in quanto si scontra con i limiti della biosfera. Se si assume come indice dell'impatto ambientale del nostro stile di vita l'«impronta» ecologica, misurata in termini di superficie terrestre, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal punto di vista dell'equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera.
ECO-DEFICIENZA
Per conciliare i due imperativi contraddittori della crescita e del rispetto per l'ambiente, gli esperti pensano di aver trovato la pozione magica nell'ecoefficienza: un concetto cruciale, che rappresenta in verità l'unica base seria dello «sviluppo sostenibile». Si tratta di ridurre progressivamente l'impatto ecologico e l'incidenza del prelievo di risorse naturali, per raggiungere un livello compatibile con la capacità di carico accertata del pianeta.
Indubbiamente, l'efficienza ecologica è notevolmente migliorata; ma poiché la corsa forsennata alla crescita non si ferma, il degrado globale del pianeta continua ad aggravarsi.
Se da un lato l'impatto ambientale per unità di merci prodotte è diminuito, questo risultato è sistematicamente azzerato dall'aumento quantitativo della produzione: un fenomeno cui si è dato il nome di «effetto rimbalzo». È vero che la «nuova economia» è relativamente più immateriale (o meno materiale); ma essa non viene a sostituire, bensì a completare l'economia tradizionale. E tutti gli indici dimostrano che a conti fatti il prelievo continua ad aumentare.
TECNO-UTOPIA
Infine, ci vuole proprio la fede incrollabile degli economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro possa essere in grado di risolvere tutti i problemi, e per ritenere illimitate le possibilità di sostituire la natura con l'artificio.
ANTI-SOCIETÀ
Vivere diversamente per vivere meglio. La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: perché incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie; perché dispensa un benessere largamente illusorio, e perché non offre un tipo di vita conviviale neppure ai «benestanti»: è un'«antisocietà» malata della propria ricchezza. Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi del Nord si rivela sempre più un'illusione.
Indubbiamente, molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una serie di costi aggiuntivi che assumono forme diverse, non sempre monetizzabili, legate al degrado, non quantificabile ma subìto, della qualità della vita (aria, acqua, ambiente): spese di «compensazione» e di riparazione (farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita moderna, o determinate all'aumento dei prezzi di generi divenuti rari (l'acqua in bottiglie, l'energia, il verde...). Herman Daly ha compilato un indice sintetico, il «Genuine Progress Indicator» (Gpi) che rettifica il Prodotto interno lordo tenendo conto dei costi dovuti all'inquinamento e al degrado ambientale.
IL MITO DELLA CRESCITA
A partire dal 1970, per gli Stati uniti l'indice del «progresso genuino» è stagnante, o addirittura in regresso, mentre quello del Prodotto interno lordo continua registrare aumenti. Mentre si cresce da un lato, dall'altro si accentuano le perdite. In queste condizioni la crescita è un mito, persino all'interno dell'immaginario dell'economia del benessere, se non della società dei consumi.
La decrescita è una necessità, non un ideale in sé. E non può certo essere l'unico obiettivo di una società del dopo-sviluppo, o di un altro mondo possibile. Si tratta di fare di necessità virtù, e di concepire la decrescita per le società del Nord come un fine che ha i suoi vantaggi. Adottare la parola d'ordine della decrescita vuol dire innanzitutto abbandonare l'obiettivo insensato di una crescita fine a se stessa.
Ma attenzione: il significato di decrescita non è quello di crescita negativa, espressione antinomica e assurda che letteralmente è un po' come dire: «avanzare retrocedendo»; Come è noto, basta un rallentamento della crescita per allarmare le nostre società con la minaccia della disoccupazione e dell'abbandono dei programmi sociali, culturali e di tutela ambientale, che assicurano un minimo di qualità della vita. La decrescita è concepibile solo nell'ambito di una «società della decrescita», i cui contorni devono essere delineati.
Un primo passo per una politica della decrescita potrebbe essere quello di ridurre, se non sopprimere, l'impatto ambientale di attività tutt'altro che soddisfacenti. Si tratterebbe ad esempio di ridimensionare l'enorme mole degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta, con tutte le loro conseguenze negative: si potrebbe parlare di una «rilocalizzazione» dell'economia.
Non meno importante è ridimensionare la pubblicità più invadente e rumorosa, e contrastare la prassi di accelerare artificialmente l'obsolescenza dei manufatti e la diffusione di prodotti usa e getta, la cui sola giustificazione è quella di far girare sempre più vorticosamente la megamacchina infernale.
Tutto ciò rappresenta, nel campo dei consumi materiali, una notevole riserva per la decrescita.
LA SOCIETÀ DELL'ABBONDANZA
Intesa in questo modo, una società della decrescita non comporta necessariamente un regresso sul piano del benessere. Fin dal 1848 Karl Marx riteneva che i tempi fossero maturi per la rivoluzione sociale; c'erano già le condizioni per il passaggio alla società comunista dell'abbondanza. L'incredibile sovrapproduzione dei cotonifici e di altre manifatture gli sembrava più che sufficiente, una volta abolito il monopolio del capitale, per garantire alla popolazione (o quanto meno a quella occidentale) l'alimentazione, l'alloggio e il vestiario. Eppure la «ricchezza» materiale era incomparabilmente inferiore a quella di oggi.
Non c'erano macchine né aerei, non esisteva la plastica, e neppure le lavatrici, i frigoriferi, i computer, le biotecnologie, i pesticidi, i fertilizzanti chimici o l'energia atomica. Nonostante gli inauditi effetti dell'industrializzazione, i bisogni erano ancora modesti e il loro soddisfacimento era possibile. La felicità, o almeno la sua base materiale, sembrava a portata di mano.
Per concepire e realizzare una società di decrescita serena dovremo rimettere in discussione il dominio dell'economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria come nella pratica, ma soprattutto nelle nostre menti. Una condizione necessaria è la drastica riduzione dell'orario di lavoro imposto, per assicurare a tutti un impiego soddisfacente.
LE SEI R
Fin dal 1981 Jacques Ellul, uno dei primi pensatori di una società della decrescita, aveva fissato per l'orario di lavoro l'obiettivo di un massimo di due ore al giorno. Ispirandosi alla Carta «Consumi e stile di vita» proposta dal Forum delle organizzazioni non governative (Ong) di Rio, tutto questo si potrebbe sintetizzare in un «programma delle 6 R»: Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Questi sei obiettivi interdipendenti avvieranno un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile. Si potrebbero aggiungere varie altre R a quelle elencate: rieducare, riconvertire, ridefinire, rimodellare, ripensare ecc.; e naturalmente «rilocalizzare». Ma tutte queste «R» sono già più o meno incluse nelle prime sei.
Si vede subito quali sono i valori prioritari da anteporre a quelli oggi dominanti: l'altruismo dovrebbe prevalere sull'egoismo, la cooperazione sulla competizione sfrenata, il piacere dello svago sull'ossessione del lavoro, l'importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto del lavoro ben fatto sull'efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale, e così via.
ROVESCIARE IL SISTEMA
Il problema è che i valori attualmente dominanti sono sistemici, in quanto suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Ma senza una sua radicale contestazione, il cambiamento rischia di rimanere limitato.
Un programma troppo vasto e utopistico? E fino a che punto la transizione potrebbe avvenire senza una rivoluzione violenta? O più esattamente, la necessaria rivoluzione mentale è possibile senza violenza sociale?
Se il mercato e il profitto potessero sussistere come incentivi, non dovrebbero più costituire il fondamento del sistema. Si potrebbero concepire misure progressive da adottare in una serie di tappe.
Una cosa è certa: l'inquietante canicola dell'estate 2003, in particolare nell'Europa sud- occidentale, sta a dimostrare la necessità di una società della decrescita e una “pedagogia delle catastrofi”.
[Testo originale di Serge Latouche, Pour une société de décroissance, “Le Monde Diplomatique”, novembre 2003, traduzione di E. H.]
Alessio Mannucci