sab, 10 maggio 2025

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Thailandia: Partorienti Fuorilegge per Sfamare i Nascituri

Quello di venire a partorire negli ospedali distrettuali thailandesi è un drammatico stratagemma molto diffuso tra le donne dei gruppi etnici del territorio birmano. “Sono molto povera. Mi sono fatta dare qualche pillola di metamfetamina, le ho messe in tasca e ho passato il confine. Qui mi sono messa a spacciarle per strada. La polizia thailandese mi ha arrestata e ora sono in questa prigione”, racconta tranquilla una donna Karen all’ottavo mese di gravidanza.
Quando le chiediamo se lo ha fatto per poter partorire in un ospedale in Thailandia, assistita dai medici e senza dover pagare, sorride, butta un occhio ad una delle guardie e abbassa lo sguardo.
A Mae Sot, cittadina sul confine, tutti i giorni decine di donne in stato avanzato di gravidanza, o con neonati in braccio, vengono lasciate davanti al centro di detenzione dalla camionetta della polizia. Passano il confine quando la gravidanza ancora permette loro di mettersi a cercare un lavoro nelle fabbriche thailandesi dove la manodopera birmana è molto richiesta. I lavoratori sono pagati molto poco e sfruttati parecchio. Vicine al parto, queste donne si danno alla microcriminalità. Commettono piccolifurti nei negozi, spacciano piccoli quantitativi di droga. Tutto per essere arrestate.
Sanno che al centro di detenzione femminile ci sono infermiere che le possono seguire ed aiutare e che saranno portate all’ospedale al momento del travaglio. Sanno anche, però, che dovranno scontare da sei mesi a un anno per poi essere rimpatriate. Molte di loro, addirittura preferirebbero restare in prigione più a lungo perché non hanno la certezza di trovare il modo di nutrire le creature nel loro paese. Nelle galere tailandesi, almeno per un po’, i bambini hanno cibo, acqua e assistenza. “I travagli sono spesso molto lunghi. In assenza di assistenza medica perdono la vita madre e bambino”, spiega Aung San Lin, medico del Back Pack Health Work Team, un gruppo che opera illegalmente nella giungla dove vivono i deportati dei gruppi etnici. E questo, le madri, lo sanno.
A queste donne, soprattutto di etnie Karen, Shan e Hmong non è riconosciuta la cittadinanza del Myanmar. Di conseguenza, è loro negato l’accesso agli ospedali statali e non possono permettersi i costi delle cliniche private. Le strutture sanitarie pubbliche negli stati da cui provengono, dove la guerriglia è ancora infuocata, sono quasi inesistenti. Inoltre, la maggior parte viene dai quei villaggi improvvisati nella giungla, quelli che hanno dovuto costruire una volta cacciate dai villaggi d’origine dai militari del regime. Camminano per giorni per poter raggiungere un centro abitato. Sanno che nemmeno lì possono essere assistite. E allora, la disperazione e la paura le spingono verso la Thailandia. Ma qui, nelle piccole città di confine, la situazione nonè tutta rose e fiori.
“Le carceri sono sovraffollate. La maggior parte dei detenuti viene dai territori birmani. Il denaro stanziato dal governo per la gestione delle prigioni non è sufficiente a coprire tutti i costi”, spiega Aye Aye Mar, responsabile di Social Action for Women, un’associazione che da anni assiste donne birmane vittime di ogni abuso. Poi, aggiunge “la direzione responsabile delle carceri spinge per il rimpatrio immediato anche dei detenuti che devono finire di scontare la pena pur di liberare le celle e far quadrare i conti”.
C’è da aggiungere che questi bambini nascono senza nazionalità. Il governo thailandese, infatti, rifiuta il riconoscimento. Il Myanmar fa altrettanto. Gli stati di origine delle mamme non sono nazioni. Sta di fatto che migliaia di bambini nascono senza patria, anche se le loro mamme sacrificano la vita in cella per darli alla luce.
di Eva Pedrelli

Scheda dettagli:

Data: 19 febbraio 2004
Fonte/Casa Editrice: Reporter Associati
Categoria:
Sottocategoria:
Biodanza, 5Ritmi, Danze sacre e altre

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