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Microbi: Chi l'ha Detto Che Sono Dannosi?
Sono creature denominate “estremofili”, e il loro nome se lo sono meritato: abitano nei siti di smaltimento degli scarti tossici delle bonifiche, nelle faglie bollenti delle fosse tettoniche, nei crateri di vulcani e nei ghiacciai polari. Insomma, riescono a vivere negli ecosistemi più ostili del pianeta. Questi organismi unicellulari devono la propria resistenza ai loro geni, che hanno suscitato l’interesse di più di un'azienda biotech. Lo scopo è quello di arrivare alla produzione in serie di enzimi ad hoc per l’elaborazione di detergenti più efficaci, di agenti chimici più puliti e di Dna più sofisticato.
Tali sforzi di “bioprospecting” promettono enormi vantaggi: riduzione dei rischi connessi allo smaltimento dei rifiuti, diminuzione dell’inquinamento e progettazione di farmaci più efficaci. Basta solo riuscire a controllare e sfruttare la resistenza genetica di questi microbi. Eppure gli interrogativi restano, e il primo riguarda l’eticità del voler consentire a imprese private di approfittare di un qualcosa che ci arriva in dono da madre Natura.
I candidati estremofili all’utilizzo biotech sono molti. C’è il Deinococcus radiodurans, soprannominato “batterio Conan” perché tollera livelli di radiazioni diecimila volte superiori a quelli che ucciderebbero un essere umano. Il suo habitat preferito sono le miniere di uranio, e ha la capacità più unica che rara di riparare il Dna danneggiato. Nel paesaggio lunare del deserto Atacama, in Cile – una delle aree più aride della Terra – vive invece un altro microrganismo che, a detta degli scienziati, potrebbe fornire indicazioni interessanti su come potrebbe essere la vita su Marte.
Intanto la Darpa, agenzia di ricerca del Pentagono, sta finanziando esperimenti di manipolazione genetica degli estremofili per allungare il periodo di attività delle piastrine in condizioni estreme (l'idea è quella di agevolare il trattamento tempestivo delle ferite di guerra). Le obiezioni a questo tipo di ricerche arrivano generalmente da attivisti che lamentano la mancata ricompensa ai paesi in via di sviluppo per i microbi estratti dai loro deserti, dalle loro montagne e dalle loro coste.
“La nota negativa del bioprospecting - spiega Beth Burrows dell'Edmonds Institute, gruppo ambientalista no-profit di Edmonds, Washington - è che i rappresentanti della biodiversità nelle varie regioni solitamente non vengono consultati o, peggio ancora, sono completamente ignorati”. Gli indigeni hawaiani, per esempio, sono infuriati per un accordo stipulato dalla University of Hawaii con un’azienda di biotecnologie per la spartizione dei profitti ricavati dalla manipolazione dei microbi presenti nelle colate laviche. Le autorità hawaiane stanno quindi studiando una moratoria sul trasferimento o la vendita di estremofili rinvenuti su territori di pubblica giurisdizione, per conciliare le esigenze di ecologisti e imprese.
Le ricerche in Antartide invece sono regolate da un trattato che garantisce l'accesso libero e gratuito al continente agli scienziati impegnati in attività a scopo pacifico. Eppure sono stati messi agli atti 92 richieste di brevetto in America e altre 62 in Europa che rivendicano la proprietà di entità biologiche scoperte lì. Domande apparentemente legali, ma «alcuni degli scienziati attivi in Antartide temono che brevetti e sfruttamento commerciale non siano in linea con lo spirito del trattato», commenta Sam Johnston, co-autore quest'anno di una relazione sull'argomento commissionata dalle Nazioni Unite.
L'Edmonds Institute nel 1997 ha fatto causa al National Park Service per aver ceduto alla Diversa, azienda di San Diego, i diritti commerciali di ricerca e utilizzo degli estremofili presenti nelle favoleggiate sorgenti calde dello Yellowstone. L'operazione, che implicava il pagamento di royalty e quote al governo, è stata alla fine autorizzata dal giudice a condizione che venisse stilato un rapporto approfondito degli effetti ambientali.
Il servizio parchi ha difeso l'accordo – la causa resterà infatti pendente finché non sarà pronta la relazione – come un modo per ricavare profitto dalla ricerca scientifica senza compromettere l'ecosistema. Quarant'anni fa, non aveva avuto la stessa lungimiranza finanziaria quando un esperto della University of Wisconsin scoprì proprio in una delle sorgenti in questione il Thermus aquaticus.
Oggi, quel batterio fornisce un enzima chiave, la polimerase, utilizzato in una reazione a catena (denominata Pcr) che funge da tecnica di identificazione del Dna ampiamente diffusa nei laboratori di ricerca sul crimine, negli ospedali e nelle università, e che ha valso al suo inventore addirittura il premio Nobel. A Yellowstone non entra in tasca nulla dalla vendita dell'enzima Pcr, che invece rappresenta una fonte di profitto chiave per un giro d'affari da 300 milioni di dollari l'anno.
Le aziende coinvolte sostengono che senza la possibilità di brevettare gli estremofili, le promesse di questo settore della biotecnologia non potrebbero mai diventare realtà. Secondo David Estell, ricercatore della Genencor International, il bioprospecting richiede solo la raccolta di qualche campione, che non turba assolutamente l'ecosistema. La Genencor è una delle poche società biotech attualmente in attivo: nel primo trimestre del 2004 ha guadagnato 13 milioni di dollari su 94 di entrate. È titolare del materiale genetico di 15 mila varietà di microbi immagazzinati in congelatori conservati a Palo Alto, in California, e in Olanda.
Ha già 11 prodotti commerciali sul mercato, e usa entità biologiche – enzimi e proteine, invece di combustibili fossili – per sviluppare metodiche più pulite ed economiche di produzione di agenti chimici per lo sfruttamento industriale. Prende un gene che garantisce al microrganismo la resistenza agli alcalini, per esempio, e lo adopera per creare enzimi con cui addizionare i detergenti per lavanderia. Uno viene usato nella candeggina, un altro per dare ai jeans l'effetto usato. Entrambi vengono prodotti da estremofili che vivono nei laghi ad alta alcalinità del Kenya e dell’Africa orientale.
I geni responsabili della produzione di tali enzimi vengono introdotti in batteri comuni come manipolazione genetica. I microrganismi Ogm vengono quindi fatti moltiplicare nelle gigantesche vasche di fermentazione distribuite nei nove impianti Genencor di tutto il mondo. “L'obiettivo - conclude Estell - è quello di far fare alle proteine quel che non hanno mai fatto prima”.
Tali sforzi di “bioprospecting” promettono enormi vantaggi: riduzione dei rischi connessi allo smaltimento dei rifiuti, diminuzione dell’inquinamento e progettazione di farmaci più efficaci. Basta solo riuscire a controllare e sfruttare la resistenza genetica di questi microbi. Eppure gli interrogativi restano, e il primo riguarda l’eticità del voler consentire a imprese private di approfittare di un qualcosa che ci arriva in dono da madre Natura.
I candidati estremofili all’utilizzo biotech sono molti. C’è il Deinococcus radiodurans, soprannominato “batterio Conan” perché tollera livelli di radiazioni diecimila volte superiori a quelli che ucciderebbero un essere umano. Il suo habitat preferito sono le miniere di uranio, e ha la capacità più unica che rara di riparare il Dna danneggiato. Nel paesaggio lunare del deserto Atacama, in Cile – una delle aree più aride della Terra – vive invece un altro microrganismo che, a detta degli scienziati, potrebbe fornire indicazioni interessanti su come potrebbe essere la vita su Marte.
Intanto la Darpa, agenzia di ricerca del Pentagono, sta finanziando esperimenti di manipolazione genetica degli estremofili per allungare il periodo di attività delle piastrine in condizioni estreme (l'idea è quella di agevolare il trattamento tempestivo delle ferite di guerra). Le obiezioni a questo tipo di ricerche arrivano generalmente da attivisti che lamentano la mancata ricompensa ai paesi in via di sviluppo per i microbi estratti dai loro deserti, dalle loro montagne e dalle loro coste.
“La nota negativa del bioprospecting - spiega Beth Burrows dell'Edmonds Institute, gruppo ambientalista no-profit di Edmonds, Washington - è che i rappresentanti della biodiversità nelle varie regioni solitamente non vengono consultati o, peggio ancora, sono completamente ignorati”. Gli indigeni hawaiani, per esempio, sono infuriati per un accordo stipulato dalla University of Hawaii con un’azienda di biotecnologie per la spartizione dei profitti ricavati dalla manipolazione dei microbi presenti nelle colate laviche. Le autorità hawaiane stanno quindi studiando una moratoria sul trasferimento o la vendita di estremofili rinvenuti su territori di pubblica giurisdizione, per conciliare le esigenze di ecologisti e imprese.
Le ricerche in Antartide invece sono regolate da un trattato che garantisce l'accesso libero e gratuito al continente agli scienziati impegnati in attività a scopo pacifico. Eppure sono stati messi agli atti 92 richieste di brevetto in America e altre 62 in Europa che rivendicano la proprietà di entità biologiche scoperte lì. Domande apparentemente legali, ma «alcuni degli scienziati attivi in Antartide temono che brevetti e sfruttamento commerciale non siano in linea con lo spirito del trattato», commenta Sam Johnston, co-autore quest'anno di una relazione sull'argomento commissionata dalle Nazioni Unite.
L'Edmonds Institute nel 1997 ha fatto causa al National Park Service per aver ceduto alla Diversa, azienda di San Diego, i diritti commerciali di ricerca e utilizzo degli estremofili presenti nelle favoleggiate sorgenti calde dello Yellowstone. L'operazione, che implicava il pagamento di royalty e quote al governo, è stata alla fine autorizzata dal giudice a condizione che venisse stilato un rapporto approfondito degli effetti ambientali.
Il servizio parchi ha difeso l'accordo – la causa resterà infatti pendente finché non sarà pronta la relazione – come un modo per ricavare profitto dalla ricerca scientifica senza compromettere l'ecosistema. Quarant'anni fa, non aveva avuto la stessa lungimiranza finanziaria quando un esperto della University of Wisconsin scoprì proprio in una delle sorgenti in questione il Thermus aquaticus.
Oggi, quel batterio fornisce un enzima chiave, la polimerase, utilizzato in una reazione a catena (denominata Pcr) che funge da tecnica di identificazione del Dna ampiamente diffusa nei laboratori di ricerca sul crimine, negli ospedali e nelle università, e che ha valso al suo inventore addirittura il premio Nobel. A Yellowstone non entra in tasca nulla dalla vendita dell'enzima Pcr, che invece rappresenta una fonte di profitto chiave per un giro d'affari da 300 milioni di dollari l'anno.
Le aziende coinvolte sostengono che senza la possibilità di brevettare gli estremofili, le promesse di questo settore della biotecnologia non potrebbero mai diventare realtà. Secondo David Estell, ricercatore della Genencor International, il bioprospecting richiede solo la raccolta di qualche campione, che non turba assolutamente l'ecosistema. La Genencor è una delle poche società biotech attualmente in attivo: nel primo trimestre del 2004 ha guadagnato 13 milioni di dollari su 94 di entrate. È titolare del materiale genetico di 15 mila varietà di microbi immagazzinati in congelatori conservati a Palo Alto, in California, e in Olanda.
Ha già 11 prodotti commerciali sul mercato, e usa entità biologiche – enzimi e proteine, invece di combustibili fossili – per sviluppare metodiche più pulite ed economiche di produzione di agenti chimici per lo sfruttamento industriale. Prende un gene che garantisce al microrganismo la resistenza agli alcalini, per esempio, e lo adopera per creare enzimi con cui addizionare i detergenti per lavanderia. Uno viene usato nella candeggina, un altro per dare ai jeans l'effetto usato. Entrambi vengono prodotti da estremofili che vivono nei laghi ad alta alcalinità del Kenya e dell’Africa orientale.
I geni responsabili della produzione di tali enzimi vengono introdotti in batteri comuni come manipolazione genetica. I microrganismi Ogm vengono quindi fatti moltiplicare nelle gigantesche vasche di fermentazione distribuite nei nove impianti Genencor di tutto il mondo. “L'obiettivo - conclude Estell - è quello di far fare alle proteine quel che non hanno mai fatto prima”.