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I Segreti delle Oasi del Deserto
Quando pensiamo alle oasi del Sahara siamo spesso prigionieri di luoghi comuni. Ci immaginiamo i laghetti tra le dune, le palme da cartolina che spuntano spontaneamente dall’aridità del deserto. Nella nostra fantasia le oasi si riducono a regali della natura, elementi spontanei e casuali. In realtà, queste incredibili isole tra le sabbie sono il risultato di un progetto raffinato, di una geniale organizzazione dello spazio e delle risorse idriche. Un’opera straordinaria realizzata dall’uomo, rinnovando tradizioni e conoscenze antiche. Pietro Laureano, 49 anni, architetto e consulente dell’Unesco, ha trascorso anni nel Sahara, dove ha condotto studi sulle tecniche utilizzate per la creazione e la difesa di queste isole tra le sabbie: "Nelle oasi – spiega - nulla è dovuto al caso: l’acqua necessaria alla vita e alle coltivazioni, ad esempio, non scaturisce liberamente da sorgenti, ma è una risorsa prodotta con fatica e controllata con rigore". L’oasi di Timimun, situata ai bordi del Grande Erg occidentale, viene alimentata dalle foggara, tunnel sotterranei lunghi decine di chilometri, scavati dall’uomo per catturare l’acqua imprigionata nel sottosuolo. "Sembra incredibile, ma in effetti sotto il Sahara esistono fiumi sotterranei ed enormi bacini idrici – spiega Laureano -. A Timimun, queste vasche interrate vengono alimentate dalla condensazione notturna dell’umidità e dalle piogge che cadono a Nord, sopra i monti dell’Atlante". I corsi d’acqua non hanno sbocchi al mare e finiscono per infiltrarsi nella falda sotto la sabbia che, come una enorme massa spugnosa, trattiene l’acqua sottraendola all’evaporazione: gli studiosi hanno calcolato che questi flussi sotterranei raggiungono l’oasi dopo un viaggio che dura 5 mila anni. "La cosa più stupefacente è che le foggara non sono solo canali drenanti che trasportano l’acqua, ma la producono esse stesse per capillarità e per condensazione sulle loro pareti. Sono vere e proprie miniere di umidità in grado di generare l’acqua dalla sabbia del deserto". Naturalmente le oasi non sono tutte uguali, come non lo sono i sistemi idrici che le alimentano. A Ghardaya, nella valle del Mozab, per esempio, l’acqua scorre sotto il letto asciutto di un antico fiume. Oltre un milione di palme da dattero vengono irrigate grazie a una sofisticata struttura che gestisce il flusso sotterraneo, un capillare sistema di dighe, sbarramenti e pozzi che canalizzano, smistano e dosano l’acqua. Ogni tre o quattro anni poi, quando il fiume si risveglia con piene improvvise, la gente dell’oasi apre i condotti di grandi vasche artificiali per accumulare le riserve e assicurarsi in questo modo fino all’ultima goccia. In altre oasi, come quelle che si trovano nella regione del Souf, dove la falda freatica è molto vicina alla superficie, i contadini hanno ideato un altro metodo ingegnoso per bagnare i palmeti: anziché irrigare la superficie con pozzi e canali, scavano per le palme veri e propri crateri, in modo che queste possano raggiungere direttamente con le radici la falda. Uno stratagemma che evita le dispersioni dovute all’evaporazione e offre alle piantagioni una valida protezione contro vento e sabbia. Quando l’acqua arriva nei palmeti, una grande pietra a forma di pettine ripartisce la quantità alla quale ciascun fellah ha diritto, secondo le dimensioni dell’orto. L’acqua scorre per effetto della pendenza in un fitto dedalo di ramificazioni, ponticelli e ripartitori, fino a raggiungere le colture da irrigare. Il calcolo del flusso è affidato a vecchi saggi, che si tramandano i segreti di questa complessa tecnologia idraulica. "Un sistema estremamente rigido, organizzato dalla moschea, fa sì che la spartizione dell’acqua sia equa - spiega Tizegarine Slim, presidente dell’Associazione di promozione delle arti tradizionali del Mozab -. In alcune oasi, per stabilire la durata del turno d’irrigazione, esistono vere e proprie sentinelle: fino a non molto tempo fa erano ciechi che si servivano di un orologio ad acqua, una specie di clessidra composta da un secchio bucato: il rumore delle ultime gocce segnalava che il turno era finito". La stessa architettura dei giardini contribuisce a preservare la fertilità della terra. Le chiome delle palme, a forma di ombrello, trattengono l’umidità del terreno, mantenendo un microclima favorevole alle colture. Ciò permette di far crescere una grande varietà di ortaggi, ma anche piante da frutta. "Coltivare frutta e verdura nel deserto ha del miracoloso - commenta Laureano -. Infatti, questi rigogliosi giardini vengono chiamati jenna, che in lingua araba vuol dire paradiso". "Sono autentici paradisi terrestri - conferma René Le Clerc, 75 anni, missionario nell’oasi di El Golea e studioso del deserto - ecosistemi pieni di vita, dove accanto all’uomo e alle piante, prosperano diverse specie di animali: uccelli, rospi, serpenti e addirittura pesci".