Notizie
Armi Fuori Controllo, le Vendite Italiane di Armi Leggere
L’Italia è il terzo esportatore mondiale di armi leggere. L’industria nazionale del settore, pur considerando le stime incomplete, in particolare per quel che riguarda le armi russe e cinesi, non perde posti nella classifica ’98 delle vendite e rimane uno dei maggiori produttori. Un mercato importante dunque, ma assolutamente fuori controllo.
Le vendite di pistole, fucili, munizioni ed esplosivi sono quasi sparite dalla Relazione sul commercio di armamenti che il Governo italiano è tenuto a presentare ogni anno al Parlamento. Nel corso degli anni ’90, l'avanzata formulazione dell’art. 2 della legge 185/90, che si riferisce ad armi "a prevalente uso militare", è stata svuotata con una serie di leggi, regolamenti, direttive comunitarie in materia di politica di armamenti che hanno di fatto ristretto la disciplina alle armi ad esclusivo uso militare. Le esportazioni di questi strumenti di morte sono classificate per la stragrande maggioranza sotto la voce "armi civili", vale a dire armi comuni da sparo, da caccia o da tiro sportivo. Così pure gli esplosivi, esportati ufficialmente "per uso industriale".
Non è esercitato alcun controllo governativo su tali trasferimenti, né è monitorato l’utilizzo di questo materiale una volta che ha lasciato l’Italia. Non c’è alcuna garanzia che i destinatari di queste armi non le riesportino o le usino per scopi "non civili". E, analizzando i dati ISTAT del commercio con l’estero, vediamo che ingenti quantitativi di armi leggere prodotte in Italia sono finiti in paesi in cui la pace esiste solo nominalmente, in cui la repressione e la guerra civile sono il pane quotidiano delle popolazioni, e il kalashnikov è l’unico mezzo di sostentamento offerto ai bambini.
Nel teatro di guerra dei Balcani, il conflitto più vicino ai nostri confini, le armi italiane avevano fatto la loro comparsa già all’inizio degli anni ‘90. E neppure l’embargo delle Nazioni Unite ha evitato che esportazioni di armi "comuni da sparo " finissero nella martoriata ex Jugoslavia. In Croazia, nel ‘98, sono arrivate dall’Italia munizioni, pistole ed equipaggiamenti antisommossa per più di 200 milioni di lire. Tra il ‘96 e il ‘98, stando ai dati ISTAT sul commercio estero, l’Italia ha venduto a Belgrado 125.000 dollari di armi leggere, tra cui fucili a canna rigata, micidiali nelle mani dei cecchini. Nel ’98, alla Bosnia Erzegovina sono state vendute cartucce per fucili a canna rigata per più di 53 milioni di lire, alla Slovenia rivoltelle, pistole e fucili da caccia a canna rigata per circa 90 milioni di lire.
Alle porte dell’Europa, la Turchia è, da alcuni anni, il secondo importatore mondiale di armi leggere italiane malgrado le preoccupazioni per le esecuzioni extragiudiziali e le "sparizioni", gli arresti indiscriminati e soprattutto il conflitto, che dura da quattordici anni, tra le forze governative e frange del Partito dei lavoratori curdi (PKK), in sei province a sud est del Paese. Amnesty International è intervenuta nel ‘96 per chiedere il blocco delle vendite di fucili d’assalto, strumenti per elettroshock, blindati ed elicotteri, a causa degli omicidi extragiudiziali e degli attacchi indiscriminati sui villagi curdi. Nel ‘96 sono state vendute 3.324 pistole per un ammontare di 1,9 miliardi e 9,6 tonnellate di munizioni e proiettili (300 milioni di lire). Nel ’97, circa 3.500 pistole per un valore di 1,8 miliardi e circa sette tonnellate di munizioni (200 milioni).
Nel ‘98, il consorzio turco Sarsilmaz ha comprato la fabbrica Bernardelli di Gardone Val Trompia (Bs) in stato fallimentare, ma in possesso di brevetti per la produzione di armi leggere antisommossa. E ciò malgrado le richieste di Amnesty International di una sospensione preventiva della vendita, senza le garanzie, i controlli ed il monitoraggio necessari.
In Africa, pistole, fucili ed esplosivi di fabbricazione italiana sono finiti verso paesi lacerati da lunghe guerre civili e in cui la situazione dei diritti umani è critica da anni. Paesi che sono le più tristi testimonianze della devastazione provocata dall’abbondanza e dall’uso indiscriminato di armi leggere.
I Paesi dell’area mediterranea hanno importato una significativa quantità di armi italiane. Il Marocco ha acquistato 807 pistole (600 milioni di lire) nel 1996 e altre 250 per 200 milioni di lire nei primi mesi del ‘97. In Tunisia, nel 1993, sono state esportate, secondo la Relazione governativa, 1023 pistole calibro nove per un ammontare di un centinaio di milioni. L’Algeria, sconvolta dalla guerra civile, ha importato 250.000 cartucce nel ’93, 6050 pistole per 2 miliardi e mezzo nel ‘96, 9000 pistole per più di 4 miliardi nel ’97 e pezzi di ricambio per armi leggere nel ‘98.
Nell’area del Corno d’Africa, in cui si cerca di attuare una moratoria sulle armi leggere, l’Italia è un importante fornitore. Negli anni ‘93-’97 è il principale esportatore (1.6 milioni di dollari) di armi leggere ed esplosivi in Sierra Leone, dove le Nazioni Unite hanno imposto un embargo nell’ottobre 1997. Nel ‘97 sono arrivati 1.600.000 bossoli per fucili. Tra il ’97 e il ’98 sono stati esportati 70.000 dollari di armi e 34 mila di esplosivi e detonatori "per uso industriale". Nessuna di queste esportazioni è indicata dalla Relazione Annuale. Eppure armi di fabbricazione italiana, secondo alcune testimonianze, sono sia accumulate in depositi dell’esercito governativo che nascoste casa per casa. E sono state viste persino nelle mani dei bambini soldato che combattono nel Paese.
Nel maggio ’97, il Governo uscito dalle elezioni è stato rovesciato da un colpo di stato militare condannato dalla comunità internazionale. Le forze ribelli del Consiglio delle Forze Armate Rivoluzionarie (CFAR), composto dal gruppo armato di opposizione Fronte Rivoluzionario Unito (FRU), che hanno preso il potere, si sono rese responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani. Nel febbraio del 1998, le forze del Gruppo di monitoraggio per il cessate il fuoco (ECOMOG), hanno ristabilito il Governo legittimo, in base ad un mandato della comunità internazionale.
L’accordo di pace, firmato dopo otto anni di guerra civile, prevede il cessate il fuoco, il disarmo e la smobilitazione e reintegrazione degli ex combattenti, ma stenta ad essere attuato e la forza internazionale di pace non riesce a garantire la protezione della popolazione civile a causa della proliferazione di armi leggere. Intanto la situazione dei diritti umani, in particolare nella parte settentrionale della Sierra Leone, è drammatica: uccisioni indiscriminate, stupri, rapimenti di civili sono aumentati tra il ‘99 e il 2000.
Alla Burkina Faso, che appoggia i ribelli del FUR, sono state vendute pistole italiane per 87.000 dollari nel ’97 e per 22.000 dollari nella prima metà del ‘98. In Guinea, infine, sono arrivate 450 tonnellate di esplosivi e detonatori.
Nella regione dei Grandi Laghi, malgrado la valanga di prove delle massicce violazioni dei diritti umani commessi da tutte le parti in conflitto, sono stati effettuati trasferimenti di armi, equipaggiamenti, addestramento e personale. Gli armamenti degli aggressori, venduti da commercianti dell’Europa occidentale, comprendevano di tutto, dalle armi leggere a gli elicotteri militari.
In Burundi, implicato nei rifornimenti militari e di personale alle forze ribelli, l’Italia ha esportato, nel 1993, 1.800.000 munizioni.
In Congo Brazzaville, nei primi mesi del ’97, sono arrivate 15 tonnellate di cartucce e bossoli per più di un miliardo di lire e, all’inizio dell’ottobre dello stesso anno, gli scontri tra le fazioni politiche in Congo hanno raggiunto proporzioni catastrofiche e almeno 5000 civili, secondo quanto è stato detto, sono morte e molte altre sono rimaste ferite in attacchi deliberati. Altre munizioni dall’Italia nel primo semestre del ’98 per 1.186.000 dollari. Tra il ‘97 e il ‘98 sono state esportate armi e munizioni per un valore di 2.174.000 dollari e 627 mila dollari di esplosivi che si aggiungono ai 7 milioni di dollari del periodo ‘93 -’96.
L’Uganda, che sta combattendo un conflitto interno nella regione settentrionale e che ha fornito truppe ed equipaggiamento alle forze di opposizione nella Repubblica Democratica del Congo, nei primi cinque mesi del ’96 ha acquistato 870 fucili e carabine "da caccia". Nel luglio ‘99 un giornale ugandese, The New Vision, ha dato notizia dell’addestramento di migliaia di soldati ribelli nella Repubblica Democratica del Congo da parte di istruttori dell’Uganda. Prima di allora, erano trapelate numerose notizie sull’addestramento fornito dalle forze speciali degli Stati Uniti d’America alle loro controparti ugandesi.
La Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) ha ricevuto 150 chili di munizioni e proiettili nel 1995, ufficialmente non per scopi militari. Ormai da anni il Governo terrorizza l'opposizione, i giornalisti, gli attivisti dei diritti umani e i sindacalisti. Ogni forma di dissenso (reale o solo sospetta) è severamente repressa dalle forze di sicurezza con intimidazioni, minacce e carcerazioni. E ciò si aggiunge al sistematico saccheggio delle risorse del Paese da parte di elite politiche, economiche e militari, nazionali e straniere, da quando fazioni delle Forze Armate Congolesi (FAC) del Governo della Repubblica Democratica del Congo, sostenute dagli eserciti di Burundi, Ruanda e Uganda, hanno intrapreso, nell'agosto 1998, un'offensiva militare per rovesciare il Presidente Laurent-Desire Kabila. Sebbene il conflitto armato abbia effettivamente aggravato la situazione, il Governo sta usando la guerra come pretesto per infliggere ai congolesi una repressione arbitraria. La maggior parte delle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza avvengono in aree lontane dal teatro di guerra.
Le armi leggere sono usate ogni anno per uccidere 150.000 donne, uomini e bambini. Ciò non deve più accadere! Bisogna dare alle popolazioni una sicurezza che non dipenda dal possesso di un’arma e impedire che queste armi non cadano nelle mani sbagliate.
Una moratoria sulle armi leggere dirette in Africa occidentale
Su richiesta del Governo del Mali, le Nazioni Unite hanno mandato, tra il 1994 e il 1995, una missione d'inchiesta in diversi Paesi dell’Africa occidentale con lo scopo non solo di quantificare la quantità di armi leggere in circolazione, ma anche di identificare le cause della loro proliferazione. La missione ha concluso che la domanda di armi aumentava essenzialmente a causa del forte senso d'insicurezza, reso drammatico dalle violenze e dalle rapine armate, in cui erano costrette le popolazioni locali per la grande quantità di armi disponibili in circolazione.
Un circolo vizioso in cui il basso sviluppo socio economico porta alla domanda di armi, la cui proliferazione frena ogni cambiamento.
A seguito di questa inchiesta, e con l’aiuto delle Nazioni Unite, i Governi di quest’area hanno deciso di approntare una risposta basata sul miglioramento della situazione della sicurezza. In tale contesto in Mali sono stati reintegrati nella società 11.500 combattenti. Si è tenuta una conferenza regionale su disarmo e sviluppo che si è conclusa con la firma di una moratoria di tre anni sull’importazione, esportazione e produzione di piccole armi e armi leggere. Inoltre migliaia di armi da sparo sono state raccolte e distrutte nell’applicazione del programma. La moratoria è stata adottata da sedici Capi di Stato membri dell’ECOWAS (La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale). L’applicazione e il rispetto di questo strumento rappresentano una svolta nell’approccio al problema. Il successo dipenderà dall’aiuto che daranno i paesi produttori di armi e dalle reazioni delle popolazioni coinvolte.
Le vendite di pistole, fucili, munizioni ed esplosivi sono quasi sparite dalla Relazione sul commercio di armamenti che il Governo italiano è tenuto a presentare ogni anno al Parlamento. Nel corso degli anni ’90, l'avanzata formulazione dell’art. 2 della legge 185/90, che si riferisce ad armi "a prevalente uso militare", è stata svuotata con una serie di leggi, regolamenti, direttive comunitarie in materia di politica di armamenti che hanno di fatto ristretto la disciplina alle armi ad esclusivo uso militare. Le esportazioni di questi strumenti di morte sono classificate per la stragrande maggioranza sotto la voce "armi civili", vale a dire armi comuni da sparo, da caccia o da tiro sportivo. Così pure gli esplosivi, esportati ufficialmente "per uso industriale".
Non è esercitato alcun controllo governativo su tali trasferimenti, né è monitorato l’utilizzo di questo materiale una volta che ha lasciato l’Italia. Non c’è alcuna garanzia che i destinatari di queste armi non le riesportino o le usino per scopi "non civili". E, analizzando i dati ISTAT del commercio con l’estero, vediamo che ingenti quantitativi di armi leggere prodotte in Italia sono finiti in paesi in cui la pace esiste solo nominalmente, in cui la repressione e la guerra civile sono il pane quotidiano delle popolazioni, e il kalashnikov è l’unico mezzo di sostentamento offerto ai bambini.
Nel teatro di guerra dei Balcani, il conflitto più vicino ai nostri confini, le armi italiane avevano fatto la loro comparsa già all’inizio degli anni ‘90. E neppure l’embargo delle Nazioni Unite ha evitato che esportazioni di armi "comuni da sparo " finissero nella martoriata ex Jugoslavia. In Croazia, nel ‘98, sono arrivate dall’Italia munizioni, pistole ed equipaggiamenti antisommossa per più di 200 milioni di lire. Tra il ‘96 e il ‘98, stando ai dati ISTAT sul commercio estero, l’Italia ha venduto a Belgrado 125.000 dollari di armi leggere, tra cui fucili a canna rigata, micidiali nelle mani dei cecchini. Nel ’98, alla Bosnia Erzegovina sono state vendute cartucce per fucili a canna rigata per più di 53 milioni di lire, alla Slovenia rivoltelle, pistole e fucili da caccia a canna rigata per circa 90 milioni di lire.
Alle porte dell’Europa, la Turchia è, da alcuni anni, il secondo importatore mondiale di armi leggere italiane malgrado le preoccupazioni per le esecuzioni extragiudiziali e le "sparizioni", gli arresti indiscriminati e soprattutto il conflitto, che dura da quattordici anni, tra le forze governative e frange del Partito dei lavoratori curdi (PKK), in sei province a sud est del Paese. Amnesty International è intervenuta nel ‘96 per chiedere il blocco delle vendite di fucili d’assalto, strumenti per elettroshock, blindati ed elicotteri, a causa degli omicidi extragiudiziali e degli attacchi indiscriminati sui villagi curdi. Nel ‘96 sono state vendute 3.324 pistole per un ammontare di 1,9 miliardi e 9,6 tonnellate di munizioni e proiettili (300 milioni di lire). Nel ’97, circa 3.500 pistole per un valore di 1,8 miliardi e circa sette tonnellate di munizioni (200 milioni).
Nel ‘98, il consorzio turco Sarsilmaz ha comprato la fabbrica Bernardelli di Gardone Val Trompia (Bs) in stato fallimentare, ma in possesso di brevetti per la produzione di armi leggere antisommossa. E ciò malgrado le richieste di Amnesty International di una sospensione preventiva della vendita, senza le garanzie, i controlli ed il monitoraggio necessari.
In Africa, pistole, fucili ed esplosivi di fabbricazione italiana sono finiti verso paesi lacerati da lunghe guerre civili e in cui la situazione dei diritti umani è critica da anni. Paesi che sono le più tristi testimonianze della devastazione provocata dall’abbondanza e dall’uso indiscriminato di armi leggere.
I Paesi dell’area mediterranea hanno importato una significativa quantità di armi italiane. Il Marocco ha acquistato 807 pistole (600 milioni di lire) nel 1996 e altre 250 per 200 milioni di lire nei primi mesi del ‘97. In Tunisia, nel 1993, sono state esportate, secondo la Relazione governativa, 1023 pistole calibro nove per un ammontare di un centinaio di milioni. L’Algeria, sconvolta dalla guerra civile, ha importato 250.000 cartucce nel ’93, 6050 pistole per 2 miliardi e mezzo nel ‘96, 9000 pistole per più di 4 miliardi nel ’97 e pezzi di ricambio per armi leggere nel ‘98.
Nell’area del Corno d’Africa, in cui si cerca di attuare una moratoria sulle armi leggere, l’Italia è un importante fornitore. Negli anni ‘93-’97 è il principale esportatore (1.6 milioni di dollari) di armi leggere ed esplosivi in Sierra Leone, dove le Nazioni Unite hanno imposto un embargo nell’ottobre 1997. Nel ‘97 sono arrivati 1.600.000 bossoli per fucili. Tra il ’97 e il ’98 sono stati esportati 70.000 dollari di armi e 34 mila di esplosivi e detonatori "per uso industriale". Nessuna di queste esportazioni è indicata dalla Relazione Annuale. Eppure armi di fabbricazione italiana, secondo alcune testimonianze, sono sia accumulate in depositi dell’esercito governativo che nascoste casa per casa. E sono state viste persino nelle mani dei bambini soldato che combattono nel Paese.
Nel maggio ’97, il Governo uscito dalle elezioni è stato rovesciato da un colpo di stato militare condannato dalla comunità internazionale. Le forze ribelli del Consiglio delle Forze Armate Rivoluzionarie (CFAR), composto dal gruppo armato di opposizione Fronte Rivoluzionario Unito (FRU), che hanno preso il potere, si sono rese responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani. Nel febbraio del 1998, le forze del Gruppo di monitoraggio per il cessate il fuoco (ECOMOG), hanno ristabilito il Governo legittimo, in base ad un mandato della comunità internazionale.
L’accordo di pace, firmato dopo otto anni di guerra civile, prevede il cessate il fuoco, il disarmo e la smobilitazione e reintegrazione degli ex combattenti, ma stenta ad essere attuato e la forza internazionale di pace non riesce a garantire la protezione della popolazione civile a causa della proliferazione di armi leggere. Intanto la situazione dei diritti umani, in particolare nella parte settentrionale della Sierra Leone, è drammatica: uccisioni indiscriminate, stupri, rapimenti di civili sono aumentati tra il ‘99 e il 2000.
Alla Burkina Faso, che appoggia i ribelli del FUR, sono state vendute pistole italiane per 87.000 dollari nel ’97 e per 22.000 dollari nella prima metà del ‘98. In Guinea, infine, sono arrivate 450 tonnellate di esplosivi e detonatori.
Nella regione dei Grandi Laghi, malgrado la valanga di prove delle massicce violazioni dei diritti umani commessi da tutte le parti in conflitto, sono stati effettuati trasferimenti di armi, equipaggiamenti, addestramento e personale. Gli armamenti degli aggressori, venduti da commercianti dell’Europa occidentale, comprendevano di tutto, dalle armi leggere a gli elicotteri militari.
In Burundi, implicato nei rifornimenti militari e di personale alle forze ribelli, l’Italia ha esportato, nel 1993, 1.800.000 munizioni.
In Congo Brazzaville, nei primi mesi del ’97, sono arrivate 15 tonnellate di cartucce e bossoli per più di un miliardo di lire e, all’inizio dell’ottobre dello stesso anno, gli scontri tra le fazioni politiche in Congo hanno raggiunto proporzioni catastrofiche e almeno 5000 civili, secondo quanto è stato detto, sono morte e molte altre sono rimaste ferite in attacchi deliberati. Altre munizioni dall’Italia nel primo semestre del ’98 per 1.186.000 dollari. Tra il ‘97 e il ‘98 sono state esportate armi e munizioni per un valore di 2.174.000 dollari e 627 mila dollari di esplosivi che si aggiungono ai 7 milioni di dollari del periodo ‘93 -’96.
L’Uganda, che sta combattendo un conflitto interno nella regione settentrionale e che ha fornito truppe ed equipaggiamento alle forze di opposizione nella Repubblica Democratica del Congo, nei primi cinque mesi del ’96 ha acquistato 870 fucili e carabine "da caccia". Nel luglio ‘99 un giornale ugandese, The New Vision, ha dato notizia dell’addestramento di migliaia di soldati ribelli nella Repubblica Democratica del Congo da parte di istruttori dell’Uganda. Prima di allora, erano trapelate numerose notizie sull’addestramento fornito dalle forze speciali degli Stati Uniti d’America alle loro controparti ugandesi.
La Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) ha ricevuto 150 chili di munizioni e proiettili nel 1995, ufficialmente non per scopi militari. Ormai da anni il Governo terrorizza l'opposizione, i giornalisti, gli attivisti dei diritti umani e i sindacalisti. Ogni forma di dissenso (reale o solo sospetta) è severamente repressa dalle forze di sicurezza con intimidazioni, minacce e carcerazioni. E ciò si aggiunge al sistematico saccheggio delle risorse del Paese da parte di elite politiche, economiche e militari, nazionali e straniere, da quando fazioni delle Forze Armate Congolesi (FAC) del Governo della Repubblica Democratica del Congo, sostenute dagli eserciti di Burundi, Ruanda e Uganda, hanno intrapreso, nell'agosto 1998, un'offensiva militare per rovesciare il Presidente Laurent-Desire Kabila. Sebbene il conflitto armato abbia effettivamente aggravato la situazione, il Governo sta usando la guerra come pretesto per infliggere ai congolesi una repressione arbitraria. La maggior parte delle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza avvengono in aree lontane dal teatro di guerra.
Le armi leggere sono usate ogni anno per uccidere 150.000 donne, uomini e bambini. Ciò non deve più accadere! Bisogna dare alle popolazioni una sicurezza che non dipenda dal possesso di un’arma e impedire che queste armi non cadano nelle mani sbagliate.
Una moratoria sulle armi leggere dirette in Africa occidentale
Su richiesta del Governo del Mali, le Nazioni Unite hanno mandato, tra il 1994 e il 1995, una missione d'inchiesta in diversi Paesi dell’Africa occidentale con lo scopo non solo di quantificare la quantità di armi leggere in circolazione, ma anche di identificare le cause della loro proliferazione. La missione ha concluso che la domanda di armi aumentava essenzialmente a causa del forte senso d'insicurezza, reso drammatico dalle violenze e dalle rapine armate, in cui erano costrette le popolazioni locali per la grande quantità di armi disponibili in circolazione.
Un circolo vizioso in cui il basso sviluppo socio economico porta alla domanda di armi, la cui proliferazione frena ogni cambiamento.
A seguito di questa inchiesta, e con l’aiuto delle Nazioni Unite, i Governi di quest’area hanno deciso di approntare una risposta basata sul miglioramento della situazione della sicurezza. In tale contesto in Mali sono stati reintegrati nella società 11.500 combattenti. Si è tenuta una conferenza regionale su disarmo e sviluppo che si è conclusa con la firma di una moratoria di tre anni sull’importazione, esportazione e produzione di piccole armi e armi leggere. Inoltre migliaia di armi da sparo sono state raccolte e distrutte nell’applicazione del programma. La moratoria è stata adottata da sedici Capi di Stato membri dell’ECOWAS (La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale). L’applicazione e il rispetto di questo strumento rappresentano una svolta nell’approccio al problema. Il successo dipenderà dall’aiuto che daranno i paesi produttori di armi e dalle reazioni delle popolazioni coinvolte.