Notizie
Animali: Possiedono Una Mente Silenziosa. Rispettiamo la loro Diversità!
Al di là delle consuete proiezioni sugli animali, che una lunga tradizione investe tanto delle nostre debolezze che delle nostre virtù, quel che fa la imprescindibile differenza è avere o no una capacità linguistica: è l'argomento del saggio di Felice Cimatti, La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani (Editori Riuniti)
Per quali motivi dobbiamo aver riguardo della diversità? Il rispetto degli altri dipende dal fatto che essi condividono con noi alcuni principi e caratteristiche, oppure trae origine proprio dalla loro disuguaglianza, dal fatto che non sono come noi? Secondo il classico principio kantiano di benevolenza siamo tenuti a rispettare e aver cura di un "prossimo" che condivide con noi un nucleo di principi umani. Ma cosa succede se questo prossimo è molto diverso da noi o se lo giudichiamo tale? Sino a che punto la diversità è un valore? Nel porre questi interrogativi sto dilatando un tema che è al centro del nuovo bel saggio di Felice Cimatti, La mente silenziosa. La tesi è che non bisogna cadere nell'errore di chi ritiene che gli animali vadano difesi perché simili a noi; al contrario, essi vanno rispettati proprio perché non sono come noi. Come si vede, questo principio non riguarda soltanto la filosofia di fondo dei movimenti animalisti ma una filosofia della natura basata non tanto sull'antropocentrismo e sul principio di somiglianza quanto sul valore della diversità, un valore che non riguarda solamente il rapporto tra noi e gli altri animali ma anche il nostro modo di guardare agli altri, alle varie forme di diversità biologica, sessuale e culturale che caratterizzano la nostra specie.
Cimatti è un filosofo della mente che partendo dal principio ormai condiviso dalla quasi totalità dei neuroscienziati, secondo cui anche gli animali hanno una mente, si interroga sulle differenze che esistono tra menti diverse. A questo problema sono state date differenti risposte. Da un lato, c'è chi guarda al pensiero animale in termini quantitativi, ritenendo che sia il prodotto di una mente in buona sostanza simile alla nostra, anche se diversa in termini di potenzialità: secondo questa tesi sarebbe possibile tracciare una sorta di scala naturale basata sullo sviluppo del sistema nervoso e su livelli intellettivi. In base a tali parametri saremmo perciò molto lontani dalle specie più distanti da noi dal punto di vista della storia naturale e invece molto simili a quelle più prossime, ad esempio i primati non umani. Dall'altro lato, e questa è la tesi dell'autore, il pensiero dell'animale umano non è superiore a quello degli altri animali ma sostanzialmente diverso. Il che dipende da una caratteristica tipicamente umana, il linguaggio, che struttura ogni forma del nostro pensiero, incluse quelle conoscenze implicite, ad esempio l'uso di strumenti o di abilità tecnico-manuali, che in realtà dipendono da un sapere mediato dal linguaggio: non c'è oggetto, indica Cimatti, che in qualche modo sia estraneo alla rete del linguaggio, che non sia definito da conoscenze, apprendimenti e pratiche legate alle funzioni linguistiche della nostra mente. A una mente "che parla", si oppone quindi una mente "silenziosa", quella degli animali. Come facilmente si intuisce, la tesi di Cimatti dispiacerà a quanti si identificano con gli animali e prestano loro una mente ad immagine di quella umana, sia pure in tono minore, fatta di pensieri, intenzioni ed emozioni a nostra misura: come si fa a dubitare che il gatto o il cane di casa non siano in totale sintonia con noi, che non condividano alcuni aspetti del nostro modo di ragionare, che non anticipino alcuni nostri pensieri e non abbiano intenzioni in linea con le nostre?
Gli esseri umani hanno sempre tentato di leggere il comportamento animale in termini umani e quello umano in termini animali: la tradizione delle favole di Esopo, di quelle di Fedro o dei racconti di La Fontaine indica una nostra fortissima tendenza a prestare all'"altro" le nostre debolezze e le nostre virtù. Una tendenza sopravvissuta sino alla fine del secolo scorso, quando i naturalisti scrivevano saggi di successo intitolati Il coraggio del leone o La timidezza della lumaca: eppure, anche ai nostri giorni una certa etologia non è aliena dall'umanizzare gli animali, dal rappresentarli come dei fratelli, sia pur minori. Per contro, la tendenza a leggere il comportamento umano in termini animali persiste sin dai tempi della fisiognomica, la disciplina che conobbe la massima fortuna nel diciassettesimo e diciottesimo secolo quando Charles Lebrun e Johann Caspar Lavater sostennero che l'aspetto fisico di un individuo, in particolare la sua conformazione facciale, tradissero una "animalità" che rendeva alcuni uomini grifagni, simili ai predatori rapaci, e altri leonini, coraggiosi e regali, mentre altri ancora sembravano infidi o viscidi, come quei rettili di cui l'uomo diffida... Ancora oggi alcune letture del comportamento umano sono fortemente improntate alla struttura delle società animali: penso, ad esempio, ad alcune estremizzazioni della sociobiologia e alle analogie con gli insetti sociali per spiegare egoismo e altruismo, dedizione o familismo.
Uno dei meriti della Mente silenziosa è quello di partire da esempi concreti, da felicissime descrizioni del comportamento animale, per procedere oltre, verso interrogativi filosofici: così, la raffigurazione dei pensieri di un gatto sonnacchioso diventa una sorta di trappola emotiva per portarci sulla strada dell'analisi di una mente che in realtà è diversa dalla nostra, non soltanto in termini di percezioni ma anche e soprattutto in termini di elaborazione linguistica. Agli animali, cani e scimmie antropomorfe comprese, non manca infatti "soltanto" la parola per essere simili a noi: questa differenza è sostanziale, tanto da stabilire una linea di confine tra le menti che parlano e quelle silenziose. Il saggio di Cimatti rappresenta perciò un momento importante nella storia del nostro modo di guardare agli animali: non soltanto analizza la mente in termini linguistici e non, ma propone un nuovo tipo di animalismo fondato sull'etica della differenza e, in termini più generali, una riflessione sulla bioetica della diversità. ALBERTO OLIVERIO
Per quali motivi dobbiamo aver riguardo della diversità? Il rispetto degli altri dipende dal fatto che essi condividono con noi alcuni principi e caratteristiche, oppure trae origine proprio dalla loro disuguaglianza, dal fatto che non sono come noi? Secondo il classico principio kantiano di benevolenza siamo tenuti a rispettare e aver cura di un "prossimo" che condivide con noi un nucleo di principi umani. Ma cosa succede se questo prossimo è molto diverso da noi o se lo giudichiamo tale? Sino a che punto la diversità è un valore? Nel porre questi interrogativi sto dilatando un tema che è al centro del nuovo bel saggio di Felice Cimatti, La mente silenziosa. La tesi è che non bisogna cadere nell'errore di chi ritiene che gli animali vadano difesi perché simili a noi; al contrario, essi vanno rispettati proprio perché non sono come noi. Come si vede, questo principio non riguarda soltanto la filosofia di fondo dei movimenti animalisti ma una filosofia della natura basata non tanto sull'antropocentrismo e sul principio di somiglianza quanto sul valore della diversità, un valore che non riguarda solamente il rapporto tra noi e gli altri animali ma anche il nostro modo di guardare agli altri, alle varie forme di diversità biologica, sessuale e culturale che caratterizzano la nostra specie.
Cimatti è un filosofo della mente che partendo dal principio ormai condiviso dalla quasi totalità dei neuroscienziati, secondo cui anche gli animali hanno una mente, si interroga sulle differenze che esistono tra menti diverse. A questo problema sono state date differenti risposte. Da un lato, c'è chi guarda al pensiero animale in termini quantitativi, ritenendo che sia il prodotto di una mente in buona sostanza simile alla nostra, anche se diversa in termini di potenzialità: secondo questa tesi sarebbe possibile tracciare una sorta di scala naturale basata sullo sviluppo del sistema nervoso e su livelli intellettivi. In base a tali parametri saremmo perciò molto lontani dalle specie più distanti da noi dal punto di vista della storia naturale e invece molto simili a quelle più prossime, ad esempio i primati non umani. Dall'altro lato, e questa è la tesi dell'autore, il pensiero dell'animale umano non è superiore a quello degli altri animali ma sostanzialmente diverso. Il che dipende da una caratteristica tipicamente umana, il linguaggio, che struttura ogni forma del nostro pensiero, incluse quelle conoscenze implicite, ad esempio l'uso di strumenti o di abilità tecnico-manuali, che in realtà dipendono da un sapere mediato dal linguaggio: non c'è oggetto, indica Cimatti, che in qualche modo sia estraneo alla rete del linguaggio, che non sia definito da conoscenze, apprendimenti e pratiche legate alle funzioni linguistiche della nostra mente. A una mente "che parla", si oppone quindi una mente "silenziosa", quella degli animali. Come facilmente si intuisce, la tesi di Cimatti dispiacerà a quanti si identificano con gli animali e prestano loro una mente ad immagine di quella umana, sia pure in tono minore, fatta di pensieri, intenzioni ed emozioni a nostra misura: come si fa a dubitare che il gatto o il cane di casa non siano in totale sintonia con noi, che non condividano alcuni aspetti del nostro modo di ragionare, che non anticipino alcuni nostri pensieri e non abbiano intenzioni in linea con le nostre?
Gli esseri umani hanno sempre tentato di leggere il comportamento animale in termini umani e quello umano in termini animali: la tradizione delle favole di Esopo, di quelle di Fedro o dei racconti di La Fontaine indica una nostra fortissima tendenza a prestare all'"altro" le nostre debolezze e le nostre virtù. Una tendenza sopravvissuta sino alla fine del secolo scorso, quando i naturalisti scrivevano saggi di successo intitolati Il coraggio del leone o La timidezza della lumaca: eppure, anche ai nostri giorni una certa etologia non è aliena dall'umanizzare gli animali, dal rappresentarli come dei fratelli, sia pur minori. Per contro, la tendenza a leggere il comportamento umano in termini animali persiste sin dai tempi della fisiognomica, la disciplina che conobbe la massima fortuna nel diciassettesimo e diciottesimo secolo quando Charles Lebrun e Johann Caspar Lavater sostennero che l'aspetto fisico di un individuo, in particolare la sua conformazione facciale, tradissero una "animalità" che rendeva alcuni uomini grifagni, simili ai predatori rapaci, e altri leonini, coraggiosi e regali, mentre altri ancora sembravano infidi o viscidi, come quei rettili di cui l'uomo diffida... Ancora oggi alcune letture del comportamento umano sono fortemente improntate alla struttura delle società animali: penso, ad esempio, ad alcune estremizzazioni della sociobiologia e alle analogie con gli insetti sociali per spiegare egoismo e altruismo, dedizione o familismo.
Uno dei meriti della Mente silenziosa è quello di partire da esempi concreti, da felicissime descrizioni del comportamento animale, per procedere oltre, verso interrogativi filosofici: così, la raffigurazione dei pensieri di un gatto sonnacchioso diventa una sorta di trappola emotiva per portarci sulla strada dell'analisi di una mente che in realtà è diversa dalla nostra, non soltanto in termini di percezioni ma anche e soprattutto in termini di elaborazione linguistica. Agli animali, cani e scimmie antropomorfe comprese, non manca infatti "soltanto" la parola per essere simili a noi: questa differenza è sostanziale, tanto da stabilire una linea di confine tra le menti che parlano e quelle silenziose. Il saggio di Cimatti rappresenta perciò un momento importante nella storia del nostro modo di guardare agli animali: non soltanto analizza la mente in termini linguistici e non, ma propone un nuovo tipo di animalismo fondato sull'etica della differenza e, in termini più generali, una riflessione sulla bioetica della diversità. ALBERTO OLIVERIO